Dalla stampa nel WEB
Alcuni siti d'interesse:
http://www.cronologia.it/storia/a1943i.htm
http://www.cefalonia.it/
Sabato 26 Maggio 2001, 17:41
(AGI) - Hay-on-Wye (Galles), 26 mag. - L'autore del bestseller sulla strage di Cefalonia "Il mandolino del capitano Corelli" ha difeso l'omonimo film americano di John Madden con Nicolas Cage, in uscita in Europa. Dopo le stroncature della critica alla prima del film a Londra, Louis de Bernieres ha affermato che "si e' superato il limite" e sono state espresse riserve "del tutto irragionevoli". "Io credo che sia stato colto lo spirito del libro, in particolare nella scena del massacro dei giovani italiani", ha spiegato de Bernieres, che ha assistito personalmente alle riprese del film in Grecia. Lo scrittore ha promosso anche il protagonista, Cage: "Corelli me lo immaginavo piu' piccolo e vivace, lui e' alto e misurato: ma quando gli ho visto interpretare alcune scene l'ho trovato assolutamente adatto".
"Il mandolino del capitano Corelli" arrivera' in Italia dopo l'estate. Attualmente e' in uscita un altro film sulla strage di Cefalonia, "I giorni dell'odio e dell'amore" dell'italiano Claver Salizzato. (AGI)
Da: http://it.news.yahoo.com/010526/14/11doq.html
(dal sito dell'ANPI)
L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e
11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e Corfù
agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta
alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la
resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno.
Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e
il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire
sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco,
con l’intimazione a cedere le armi.
All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due
grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un
ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli
italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di
pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle
armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità
di resistere.
Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22
settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e
bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio,
ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e
1.250 i soldati caduti in combattimento.
L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza
ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che
"a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono
essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i
suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le
armi secondo gli ordini del Führer".
Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600
soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle
mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della
casetta rossa. Questi gli ordini del generale Hubert Lanz, responsabile
dell’eccidio: "Gli ufficiali che hanno combattuto contro le unità
tedesche sono da fucilare con l’eccezione di: 1) fascisti, 2) ufficiali
di origine germanica, 3) ufficiali medici, 4) cappellani. 5) fucilazioni
fuori dalla città, nessuna apertura di fosse, divieto di accesso ai
soldati tedeschi e alla popolazione civile. 6) nessuna fucilazione
sull’isola, portarsi al largo e affondare i corpi in punti diversi dopo
averli zavorrati".
Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000
superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi,
scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la
Divisione Acqui annientata.
Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità
dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni
trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che
fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i
partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e
fornendo preziose informazioni agli alleati.
Il racconto inedito di un ufficiale della divisione Acqui
decimata dai nazisti nell'isola greca dopo l'8 settembre
"Nell'orrore di Cefalonia scampai alla furia tedesca"
di MARIANO BARLETTA
Dalla tragedia di Cefalonia, dove la divisione Acqui fu massacrata dai tedeschi,
affiora la testimonianza di uno scampato, Mariano Barletta, scomparso nel 1984.
Il figlio dell'autore l'ha "donata" al sito Internet dell'Anpi. Questo
è il capitolo che racconta l'eccidio.
GIUNSE poco dopo un ufficiale tedesco in motocicletta seguito da un'autocarretta
e, appartatosi a dare segrete istruzioni al capo pattuglia, ordinò poi che noi
ufficiali vi montassimo. Qualcuno domandò se ci era consentito portare i
bagagli ed egli, dopo breve esitazione, rispose di si, purché avessimo fatto
presto.
Alla svelta, con i miei tre amici e Baldini, ritornai nella casa, misi la
coperta a tracolla e, reggendo da un lato la valigia e dall'altro l'involto fui
di nuovo sulla strada.
"Comandante" - mi disse Baldini mentre tra i primi montavo sull'autocarretta
- "Posso venire anch'io?"
"Mio caro, se è per me vieni pure!"
Visto che nessuno vi si opponeva egli montò felice di non separarsi da me.
Nel frattempo, sopraggiunse il maggiore Pica con i suoi artiglieri e, constatato
che sull'autocarretta c'era la mia ordinanza, ritenne che ciò per un'esplicita
autorizzazione e, soddisfatto che i tedeschi ci usassero tanto riguardo, chiamò
il soldato al suo servizio e gli disse di seguirlo.
L'autocarretta si mise in moto e, traballando per il sovraccarico di uomini e
per le affossature della strada, si avviò verso Faraò; oltre l'autista, erano
con noi due soldati dei quali uno, armato di mitragliatrice, portava a tracolla
un lungo nastro di lucidi proiettili. All'altezza della bicocca ove si erano
acquartierati i miei marinai, superammo con difficoltà un'interruzione della
strada causata da una bomba e quindi, nel più assoluto silenzio, proseguimmo
lentamente verso l'ignota destinazione.
Era convincimento di ognuno che saremmo stati rinchiusi in qualche edificio del
capoluogo e, pertanto, grande fu la sorpresa quando, giunti al bivio dal quale
si vedeva lo sconquasso della palazzina ove era installato il comando della
batteria, l'autista anziché girare a destra per andare ad Argostoli, girò dal
lato opposto dirigendo così verso la spiaggia di Lardigò.
"Dove ci portano?" - chiesi fra me e, come se quelle parole non
proferite avessero eco sentii che alle mie spalle si sussurrava: "Dove ci
portano? Dove ci portano?"
Superato il bivio, nel silenzio sempre più grave di noi tutti, l'autocarretta
continuò la sua lenta marcia per la strada in discesa sotto un bel cielo terso,
tra i campi che, assolati e spogli per la recente mietitura, dall'uno e
dall'altro lato degradavano a terrazze. Io che ero in piedi, alle spalle
dell'autista, cominciai a vedere l'estrema punta di Lardigò, il mare e
l'isolotto Verdini con l'alto faro che si stagliava netto nel barbaglio
dell'acqua: il placido aspetto della natura faceva contrasto all'arrovellarsi
della mente, al tumulto del cuore.
Ad una svolta, c'imbattemmo nel capitano commissario Pozzi e nel tenente
Seggiaro, comandante della 208 che tranquillamente risalivano a Faraò.
Meravigliato, come se non sapesse che la situazione era irrimediabilmente
disperata fin dalla sera precedente, con molta ingenuità Pozzi domandò come
mai le ostilità erano terminate così presto. Mentre qualcuno gli diceva che
non si poteva fare diversamente, l'autocarretta si fermò ed uno dei tedeschi,
avvicinatosi ai due, li disarmò e s'impossessò dei loro oggetti di valore fra
i quali faceva spicco il vistoso orologio d'oro del capitano.
Compiuta quell'ennesima rapina il soldato che pareva avesse la facoltà di
comandare, ci ordinò di scendere dall'auto carretta. Restammo sorpresi: perché
mai se dall'uno e dall'altro lato della strada non c'erano che campi deserti?
Che compito avevano quei tre soldati?
Ad uno ad uno venimmo giù e già pensavo con cruccio alla marcia chi sa quanto
lunga, che forse avrei dovuto compiere sotto i dardeggianti raggi solari, col
pesante scomodo bagaglio quando con nostra maggiore sorpresa ci fu ordinato di
deporre valigie, cassette, fagotti sul ciglio della strada e di disporci in fila
indiana.
Senza scambiare tra noi neanche un'occhiata, ci allineammo sotto lo sguardo
arcigno di quei tre cavalieri della nuova apocalisse e ci ponemmo in marcia,
discendendo verso il mare; uno dei tedeschi era in testa, quello con la
mitragliatrice era in coda. Ad un tratto, un ufficiale non si trovò più
allineato ed il tedesco che fuori riga sorvegliava che tutto procedesse secondo
il suo sinistro proposito, si adirò, proruppe in roche parole di rabbia, poi
tutto ritornò nell'apparente tranquillità di prima: si udiva soltanto lo
scalpiccio dei passi ed il frinire delle cicale.
All'improvviso, il capofila volse a destra e saltò in un campo e noi, per non
dare pretesto ad una feroce rappresaglia, lo seguimmo mansueti avendo cura di
mantenerci allineati onde evitare che l'iracondo soldato si adirasse.
Ero al terzo posto; quando tutti fummo nel campo, il capofila sostò e, prima
ancora che potessi rendermi conto di ciò che si preparava vidi un capitano che
mi precedeva alzare le braccia e gridare:
- "Kamedad! Kamerad!" -
Mi volsi istintivamente a destra e quanto vidi mi fece raccapricciare: il
tedesco che ci aveva seguiti con la mitragliatrice ed il luccicante nastro di
proiettili a tracolla era a cinque, sei metri da noi, disteso a terra, davanti
all'arma già postata sul bipede e si accingeva a fare fuoco.
In un attimo mi fu chiaro ogni cosa ed ogni mia residua illusione, ogni mia
estrema speranza si spense nella morsa che mi strinse il cuore. Ora sapevo bene
dove mi avevano condotto quei tre masnadieri travestiti da soldati: ero alle
soglie del sonno eterno!
Fortemente turbato, non pensando alla vanità della protesta verbale, mi unii
all'alto coro esecrante degli altri che cercavano far valere il nostro diritto
alla vita, ma quel tale dei tre che aveva la facoltà del comando, ripeteva
inflessibile:
"Nein, nein!"
Quante volte, esposto al pericolo, avevo pensato che anche per me potesse
scoccare in guerra l'ora suprema e quasi mi sentivo pronto al duro evento, ma
ora che l'ipotesi si era tramutata in realtà, ora che la nera costellazione
culminava sul mio orizzonte e mi diceva: - "Vieni!" - quanto travaglio
della mente, quant'agitazione dell'animo!
Morire! ... Si, presto o tardi tutti dobbiamo morire ed il pensiero della morte
è sempre presente a chi non vive di solo pane, ma quanta tristezza lasciare la
vita a quel modo! Con l'avidità di chi sta per perdere un sommo bene e vuole
goderne il più che sia possibile, con rapidità vertiginosa vidi le arene
vicende della mia vita; vidi l'infanzia triste, la grama fanciullezza, la
travagliata adolescenza, le prime faticose affermazioni, l'avvenire che avevo
sognato e te, Mamma, vidi e vidi te, Nerina, povere donne, piangerebbe lacrime
ancora più amare, e voi due, Elio e Lucio, teneri virgulti, vita della mia
vita, ai quali tanto ancora dovevo e nulla più potevo dare, neanche la dolcezza
accorata di portare crisantemi ad una tomba.
O anime care al mio cuore, o piccole grandi cose che foste l'essenza dei giorni
miei, addio, addio!
Quanto durò il tumultuoso ricordare, il rapido susseguirsi d'immagini che si
rincorrevano come onde spumeggianti di un mare in tempesta? Non lo so. Per
l'ultima volta il mio sguardo incontrò Neri, poi la mitragliatrice cominciò a
sgranellare il nastro di proiettili e subito vidi Baldini, che mi stava accanto,
sollevare le braccia ed abbattersi col viso contratto; nello stesso istante,
come se l'avessi già progettato o qualcuno, in quel momento estremo, me
l'avesse suggerito, mi lasciai cadere bocconi, come per morte istantanea, e mi
mantenni inerte sul terreno.
Alla sventagliata della mitragliatrice seguì un profondo silenzio. Ero disteso
con la gamba destra allungata, la sinistra leggermente piegata nel ginocchio, le
braccia in lieve arco intorno alla testa e le mani come rattrappite; trattenendo
il respiro, quasi reprimendo i battiti del cuore, procuravo che ogni cosa avesse
in me l'aspetto dell'abbandono esanime della morte. Attraverso le palpebre
socchiuse nulla potevo vedere oltre il palmo di terriccio a contatto del viso, né
percepivo voci o rumori: unico segno di vita il monotono frinire delle cicale.
In quel breve silenzio, che per me fu lungo quanto lo sono i secondi nei momenti
gravi, sentendomi illeso e non ascoltando lamenti o respiri difficoltosi, mi
domandai se tutta quella faccenda non fosse una diabolica burla di quei tre
soldati, ma ebbe breve durata quella troppo ingenua supposizione. Presto
avvertii il rantolo dei moribondi e, poco lontano, alla mia destra, un sordo
stridore, uno scatto metallico, ed infine un cupo sparo: il soldato tedesco che
con tanta perizia ci aveva condotto a morire, che alle nostre proteste aveva
risposto inflessibile: - "Nein, nein!" - quello stesso soldato, in
ossequio alle leggi umanitarie della guerra, veniva a darci il colpo di grazia,
lui tanto buono, per non farci soffrire!
Dopo ognuna di quelle esecuzioni supplementari, sentivo i lenti passi
striscianti del pio giustiziere che si avvicinava.Davanti alla mitragliatrice,
con l'animo stretto da grande angoscia, non mi fu certamente facile conservare
il sangue freddo e superare il terribile istante oltre il quale mi attendeva la
morte, ma quanto mi fu più difficile rimanere inchiodato lì, a terra, pieno di
vita, col cervello più lucido che mai, senza contrarre un muscolo, senza un
battere di ciglio e attendere, per la seconda volta, che si compisse il destino.
La trepidazione giunse all'apice. Dai passi avvertii che il soldato si
appressava, che si era fermato non lontano da ma dal lato dei piedi; dallo
stridore metallico mi resi conto che il proiettile veniva immesso nella canna,
ed infine udii il cupo fragore: per la seconda volta ero illeso; ritenendo forse
che già fossi nel mistero dell'oltretomba, il soldato aveva diretto il colpo ad
uno dei due infelici morituri che, ciascuno per lato, mi stavano accanto.
Seguirono ancora altri spari poi l'esecuzioni complementari terminarono e lo
scalpiccio del pio giustiziere si perdé lontano, ma io continuai a rimanere
immobile, come per una gara di resistenza, mentre, per lo stato emotivo e la
forte radiazione solare, il sudore gocciolava copioso lungo l'orlo della visiera
ed il rantolo dei moribondi, dapprima lieve, si faceva sempre più roco e
straziante.
(25 aprile 2001)
TESTIMONIANZE Si rompe in Germania la «congiura del silenzio»
sull’assassinio dei 5000 soldati italiani: due diari rivelano particolari
raccapriccianti
La strage di Cefalonia con gli occhi degli aguzzini
«Li portano vicino al ponte e li fucilano. Le grida arrivano fin nelle case
dei greci»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - Il massacro di Cefalonia raccontato dalla parte dei carnefici.
L’assassinio sistematico di cinquemila soldati italiani della Divisione Acqui,
che si erano già arresi ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, nella
testimonianza di alcuni alpini della Wehrmacht, che videro l’orrore e vollero
confidare ai diari personali il disgusto e l’onta: «È una vergogna come si
comportano i soldati tedeschi». Si rompe per la prima volta in Germania la
congiura del silenzio. Grazie a due ex soldati dell’esercito hitleriano e ad
alcune testimonianze inedite, la strage dell’isola greca può essere adesso
ricostruita in tutta la sua agghiacciante brutalità. Il diario dell’alpino
Waldemar Taudtmann e del suo superiore, Alfred Richter, sono al centro della
puntata di History, programma di storia della Zdf, che la seconda rete pubblica
tedesca dedica questa sera a uno dei crimini più efferati e meno conosciuti
della Seconda Guerra Mondiale.
La Süddeutsche Zeitung ne ha anticipato ieri ampi estratti. «Non si faranno
prigionieri, tutto ciò che appare davanti agli occhi verrà abbattuto», nota
Taudtmann sul suo quaderno, la mattina del 20 settembre. È il prologo della
mattanza. L’ordine è verosimilmente venuto da Hitler in persona, anche se
l’altro testimone, il sottufficiale Richter, preferisce non crederci: «Dubito
- scriverà due giorni dopo, a scempio già compiuto - che un simile ordine sia
mai arrivato, penso piuttosto all’ubriacatura dispotica dei comandanti, per
quali la vita delle persone non è che un numero».
E i numeri di Cefalonia sono tali che anche alcuni fra i tedeschi ne rimangono
atterriti. «Fucilati, abbattuti, calpestati con gli scarponi da montagna, gli
uomini dell’artiglieria costiera giacciono ancora ai loro posti», annota
Richter il 21 settembre, nel vedere i corpi senza vita dei soldati di una
postazione italiana. Una giornata tragica, la prima dell’autunno 1943. Al
mattino, il 98mo reggimento del III battaglione degli alpini tedeschi riceve
l’ordine di attaccare la città di Diglinata e neutralizzare le due compagnie
italiane che la controllano. Ma lo scontro in pratica non c’è. Ecco il
racconto di Richter, in forza a un’altra unità: «Vengono sparati soltanto
pochi colpi, poi gli italiani agitano i fazzoletti bianchi e cominciano a venir
fuori a gruppi, correndo. Ma quando noi raggiungiamo l’altura, li troviamo
tutti per terra, morti, sono tutti stati colpiti alla testa. Quelli del 98.mo li
hanno dunque uccisi dopo che si erano arresi».
Ma l’esperienza peggiore è quella del pomeriggio, quando il battaglione di
Richter accetta la resa di altre due compagnie di alpini degli ex alleati: «Non
vogliono combattere contro di noi e pensano di aver salvato la vita
arrendendosi. Torniamo a Frangata e consegniamo i prigionieri. Ma qui li attende
una sentenza terribile. Li portano vicino al ponte, nei campi recintati da muri
fuori dalla città, e li fucilano. Rimaniamo due ore sul posto e per tutto il
tempo sentiamo i colpi senza interruzione..., le grida arrivano fin nelle case
dei greci. Anche medici e preti partecipano alle esecuzioni... Un gruppo di
soldati bavaresi prova a rifiutarsi, ma un ufficiale li minaccia di mettere
anche loro al muro. Fa una figura tragicomica un prigioniero, che si salva la
vita salendo su una pedana e cantando con bella voce arie d’opera italiana,
mentre i suoi compagni vengono uccisi».
Cefalonia non fu il primo, né l’ultimo crimine di guerra di cui si
macchiarono gli alpini nazisti in Grecia. Come spiega alla Zdf lo storico di
Colonia Carlo Gentile, già nell’agosto 1943, nel villaggio di Kommeno, oltre
300 persone, in pratica l’intera popolazione, erano state trucidate, molte
donne violentate e poi bruciate vive. Mentre, il 4 ottobre dello stesso anno, un
altro commando di «Gebirgsjaeger» fucilò il generale italiano Ernesto
Chiminello e 130 ufficiali: «I loro corpi - è sempre il diario di Richter a
riferirlo - furono gettati in mare con delle pietre appese alle gambe».
Alla congiura del silenzio, che per oltre cinquant’anni ha tenuto nascosti i
dettagli di Cefalonia, hanno contribuito, come spiega la Süddeutsche Zeitung ,
«le associazioni degli ex combattenti, la giustizia e anche apparati
governativi». Così, un’indagine dei giudici di Dortmund del 1965 non venne
mai resa pubblica. E, nel 1973, una richiesta di intervista della Rai al
procuratore coinvolto, complice anche il rifiuto del ministero degli Esteri,
venne rifiutata.
Paolo Valentino
Corriere della Sera
Domenica 25 Marzo 2001
L'orrore e l'orgoglio dei reduci. "Urlammo: non siamo
vigliacchi"
Sull'isola dell'eccidio dei diecimila soldati italiani con il presidente
Ciampi e cinquanta sopravvissuti
il racconto
JENNER MELETTI
CEFALONIA – Il vento freddo scende dalle montagne, ma il gelo di Nicola
Russigno, 80 anni, arriva dalla memoria. «Quando lo racconto, non mi credono.
Eppure su quest'isola, nel settembre del 1943, c'erano i miei colleghi ufficiali
che si offrivano volontari per la fucilazione. "Vado io, così la facciamo
finita". C'era quasi una gara per andare prima degli altri davanti al
plotone. Ecco, se si capisce una cosa come questa, si può comprendere cosa sia
stata la tragedia di Cefalonia».
Quella di Nicola Russigno, sottotenente di Taranto, è una delle 11.500 storie
italiane di quest'isola greca che sembra troppo piccola per una guerra così
crudele. Diecimila soldati assassinati dall' esercito tedesco, e gli altri
millecinquecento che da allora vivono nel loro ricordo. «Quella è la Casetta
Rossa. Non era così, allora, ma ha mantenuto lo stesso colore. Io e gli altri
ufficiali fummo portati lì, dopo la resa. Appena scesi dal camion abbiamo
capito tutto. C'era il prete, don Formato, con la croce in mano che confessava e
benediceva. Ci prendevano quattro alla volta, ci portavano sull'orlo di un
fosso, e sparavano. Così i corpi sparivano. Per questo tanti si sono offerti
volontari: meglio morire subito, che stare lì in agonia. Io mi sono salvato
perché ero nell'ultimo gruppo. Avevo già dato una fotografia a don Formato,
perché la mandasse a mio pare, e il prete si è messo a gridare: "Basta,
soldati tedeschi. Ne avete ammazzato abbastanza, state fucilando da questa
mattina. Salvate almeno questi ultimi". E così ci hanno tenuti come
prigionieri».
Sono rimasti solo gli eucalipti, a ricordare quel settembre di guerra. Prima le
bombe dei tedeschi, poi il terremoto del '53, hanno cambiato il volto di
Argostoli, il capoluogo dell'isola. Solo questi alberi profumati permettono di
rintracciare il viale che allora si chiamava Principe di Piemonte. Partiva da
piazza Valianos e arrivava a San Teodoro, dove adesso c'è il monumento ai
Caduti italiani, e la fanfara suona «Fratelli d'Italia» davanti al Presidente.
Nel cuore dei cinquanta soldati di allora, portati sull'isola da un aereo
dell'Aeronautica militare, l'orgoglio oggi è più forte della tristezza. Dopo
Sandro Pertini, che venne qui nel 1980 e disse che questo olocausto è stato
dimenticato «per omertà tedesca e ignoranza italiana», adesso Azeglio Ciampi,
davanti alle pietre di granito nero, ripete che «qui è nata la Resistenza
italiana». Ci sono gli elicotteri pronti per portare i reduci a pranzo sull'
ammiraglia Garibaldi.
«Aerei, elicottero, navi. Fossero arrivati allora». Luigi Baldassari, classe
1916, è tornato qui dalla Valsugana. «Abbiamo deciso di resistere, di non
consegnare le armi ai tedeschi, soprattutto perché, di quelli là, non ci
fidavamo. E poi il governo che era in esilio a Brindisi aveva detto: resistete.
Gli ufficiali, soprattutto quelli di grado più basso, ci dicevano: bisogna fare
qualcosa, dobbiamo guadagnarci dei meriti. Se combattiamo contro i tedeschi, gli
Alleati arriveranno a darci una mano, e così potremo tornare a casa presto. Ma
siamo stati fregati. Il Re? Non sapevamo nemmeno che fosse scappato, in quei
giorni. Eravamo stanchi della guerra, ma non volevamo fare la figura dei
vigliacchi di fronte ai tedeschi. Così, in una sola notte, tutti noi soldati
abbiamo detto agli ufficiali: non ci arrendiamo».
Amos Pampaloni, l'uomo che per primo ordinò il fuoco della sua batteria contro
tre zatteroni tedeschi che portavano carri armati e uomini in rinforzo alla
Wehrmacht (in sfregio alla tregua concordata) anche oggi ha idee precise. «Non
ci sarebbe stato il massacro se il Re, invece di scappare, avesse dichiarato
subito la guerra alla Germania. In quel momento, sull'isola, c'erano 11.500
italiani e 3.000 tedeschi. E invece no, siamo rimasti lì ad aspettare, e
intanto la Wehrmacht organizzava la sua aviazione. Le scuse della Germania per
il massacro? A cosa servono, ormai. Diamoci da fare, invece, per fermare le
quaranta guerre che anche oggi si possono contare nel mondo».
L'ex capitano ce l'ha anche con il romanzo dell'inglese Luis de Bernieres, «Il
mandolino del capitan Corelli», che ha ispirato un film che presto sarà nelle
sale. «Ho letto il libro, e posso dire che è razzista. Sarei io, il capitano
Corelli, e dal mattino alla sera non farei altro che suonare il mandolino,
organizzando concerti e cori, con qualche vacanza al mare con le prostitute. Sì,
ho saputo che al presidente Ciampi il libro invece sarebbe piaciuto, e io gli ho
detto: "Lei il libro l'ha solo sfogliato, vero?", e lui si è messo a
ridere».
Ci sono anche i figli dei morti, oggi sull'isola. «Mio padre, Egidio Gelera, è
caduto su quella montagna là, tutta sassi. Come potevano scappare agli Stukas?
Quella gola si riempì di morti. Mio padre l'ho visto quando avevo sette anni,
era venuto in licenza, e mi portò con lui a caccia». Inni e preghiere anche
davanti al monumento dei Caduti greci, poi una corona di fiori viene gettata in
mare dal Garibaldi per ricordare coloro che morirono nelle navi in fuga,
dilaniati dalle mine. Suona il silenzio, e un plotone scarica tre raffiche in
aria. Qualcuno di coloro che sono tornati, con la scritta «Reduce» sul petto,
tenta un saluto militare. Altri si mettono a piangere, come Domenico Bellaria di
Termini Imerese. «Io quei morti in mare li ho visti. E i tedeschi sparavano ai
sopravvissuti». Le tre raffiche portano tutti indietro, a quel settembre del
'43, quando l'uva era matura e i camion scaricavano i prigionieri italiani alla
fine del viale degli eucalipti. Figli e nipoti sostengono i vecchi. «Io vorrei
avere un'ora in più, su questa isola», dice il sottotenente Nicola Russigno.
«Quando i tedeschi mi presero, io non consegnai loro la pistola. L'avevo
nascosta in un bosco, perché speravo di riprenderla, di vendicare la strage. So
dov'è e vorrei portarla a casa, la mia Beretta, ricordo di quei giorni». E
delle notti in cui, nella vicina Itaca, si guardavano i fuochi di Cefalonia,
senza sapere che si stavano bruciando dei soldati italiani.
La Repubblica
2 marzo 2001
Cefalonia, la strage chiede ancora giustizia
Da alcuni mesi l’attenzione dell’opinione pubblica intorno ai fatti di
Cefalonia e Corfù sta crescendo senza interruzioni. Il film, tratto dal
discusso romanzo di De Bernière, le scoperte d’archivio sui silenzi italiani,
l’uscita dell’argomentato libro di Alfio Caruso e l’annunciata visita del
Presidente Ciampi sui luoghi dell’assassinio hanno riportato alla ribalta la
scelta degli uomini della Divisione Acqui, che dopo l’8 settembre 1943, in
mezzo a ordini contraddittori e con il desiderio di ritornare a casa,
rifiutarono le intimazioni tedesche di resa e combatterono con coraggio contro
la Wehrmacht e gli Stukas, aspettando dalla non lontana Brindisi aiuti che non
sarebbero mai arrivati. I militari tedeschi, applicando con triste zelo un
ordine proveniente da Berlino, compirono «una delle azioni più arbitrarie e
disonorevoli nella lunga storia del conflitto armato» (sono parole di Telford
Taylor, pubblico ministero al processo di Norimberga), fucilando dopo la resa
circa seimila soldati italiani, tra cui quasi tutti gli ufficiali sopravvissuti.
Il 16 dicembre scorso è partita da Acqui Terme, città che in memoria di quella
Divisione organizza dal 1968 senza clamori il Premio Acqui Storia, una raccolta
di firme che chiede alle nostre istituzioni di compiere i passi necessari
affinchè la Germania riunificata riconosca il crimine compiuto dai soldati
della Wehrmacht (non erano coinvolte SS nè Gestapo: questo spiega molti silenzi
del dopoguerra) e offra le scuse ai reduci sopravvissuti e ai familiari delle
vittime. L’iniziativa, che richiede a tutti l’obbligo morale di evitare le
strumentalizzazioni a fini politici, è nata grazie all’idea dei due giovani
membri acquesi della Giuria dell’Acqui Storia e grazie alla partecipazione
attenta di Marcello Venturi e Alfio Caruso. I reduci e i loro familiari, che mi
hanno già contattato da tutt’Italia per firmare e far firmare (da Roma,
Trieste, Fidenza, Rieti...) sono il motore che spingerà questa petizione verso
il traguardo delle 11.700 firme. Nel 1969 il cancelliere Willy Brandt si
inginocchiò a Varsavia davanti al monumento a ricordo degli ebrei trucidati dai
suoi connazionali, chiedendo scusa (lui avversario del nazismo e gigante europeo
della democrazia): molti si commossero, nessuno pensò che fosse un atto
semplicemente formale. Trent’anni dopo, con la stessa fiducia negli uomini che
detengono ora a Berlino la responsabilità di rappresentare il popolo tedesco,
da Acqui è partita una mobilitazione delle coscienze che possa riguardare tre
generazioni di italiani e di europei. Gentile signor Del Buono, io spero che lei
possa aderire a questa petizione insieme a molti lettori della sua rubrica:
invierò a tutti coloro che mi contatteranno i fogli già preparati per
raccogliere le firme. dott. Enrico Severino, Acqui Terme
LA RISPOSTA di O.d.B.
GENTILE Enrico Severino, aderisco senz’altro. Al di là della sua necessità
ed equità, una iniziativa simile serve anche a tenere vivo il senso della
Storia.
Oreste del Buono
La Stampa
Martedì 9 Gennaio 2001
ECCIDI Avviata la raccolta di firme per ottenere dal
governo tedesco un atto formale che renda onore ai soldati italiani trucidati
nell’isola greca nel ’43. Intanto emergono i verbali di un’istruttoria
archiviata
CEFALONIA: 11.700 motivi per chiedere scusa
di AURELIO LEPRE
L’armistizio dell’8 settembre 1943 mise gli ufficiali e i soldati italiani,
soprattutto quelli che si trovavano all’estero, in una situazione drammatica.
Non furono, infatti, impartiti ordini; fu detto solo, nell’annunciare
l’armistizio, che le truppe avrebbero reagito con le armi contro eventuali
attacchi, da qualsiasi parte fossero venuti. L’isola di Cefalonia era
presidiata dalla divisione Acqui. La notizia dell’armistizio colse i suoi
uomini di sorpresa. Fino ad allora l’attività di presidio non aveva
comportato impegni militari gravosi.
Il volto feroce della guerra si rivelò d’improvviso, nel momento in cui si
apriva una speranza di pace, e la morte venne da parte di coloro che, fino a
quel momento, erano stati considerati alleati. Per questo, l’eccidio di
Cefalonia può essere visto come uno di quei fatti che rivelano, di tanto in
tanto, la tragica ironia della storia.
La divisione Acqui era sola, in un territorio diventato improvvisamente nemico.
In condizioni difficilissime, 11.700 uomini dovettero compiere una scelta. Erano
stati abituati, quei soldati, a obbedire agli ordini; le circostanze li
costrinsero a scegliere senza avere nessun altro punto di riferimento che il
proprio senso dell’onore.
Avevano giurato fedeltà al re e mantennero fede al giuramento, nonostante
fossero stati abbandonati a se stessi.
I cinquemila, tra ufficiali e soldati, fucilati dopo essere stati imprigionati,
furono vittime di una strage che violava ogni legge di guerra, perché non
vennero uccisi in battaglia, ma quando si erano già arresi.
L’eccidio di Cefalonia può essere perciò paragonato a quelli commessi contro
i civili disarmati a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine, a Civitella Val di
Chiana.
I morti di Cefalonia sono rimasti a lungo dimenticati. Sarebbe però ingiusto
dire che questa perdita di memoria è dovuta alla volontà di nascondere
l’apporto dei monarchici alla lotta contro il nazismo. Gli storici della
Resistenza hanno ricordato non solo l’attività delle loro formazioni, ma
anche il contributo di conoscenze tecniche, spesso fondamentale, che gli
ufficiali rifugiatisi sulle montagne diedero ai primi reparti partigiani.
Sono rimaste, invece, nell’ombra le vicende delle centinaia di migliaia di
militari che al momento dell’armistizio si trovavano oltre le frontiere. La
loro storia è ancora tutta da scrivere. Intanto, è giusto ricordare il
sacrificio della vita che gli uomini dell’Acqui offrirono all’Italia nel
tragico settembre del 1943.
Corriere della Sera
19.12.2000
«Insabbiammo la strage di Cefalonia»
ROMA — La strage di Cefalonia, nella quale nel settembre 1943 furono
massacrati dalle truppe tedesche 6.500 soldati italiani, fu insabbiata
nell'autunno del 1956 in nome della ragione di Stato. Lo riconosce il senatore a
vita Paolo Emilio Taviani, 88 anni, all'epoca ministro democristiano della
Difesa, in un'intervista che appare oggi sul settimanale «L'Espresso».
A Cefalonia i soldati della divisione Aqui furono selvaggiamente massacrati dopo
essersi arresi. L'ordine, impartito da Hitler, venne eseguito con determinazione
inumana. «È stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga
storia del combattimento armato», disse il rappresentante dell'accusa al
processo di Norimberga. Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti
si batterono perché i 31 militari tedeschi responsabili di quell'eccidio
venissero processati. Ma la politica non permise di arrivare al processo.
Nell'ottobre del 1956 Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrisse
a Taviani, ministro della Difesa, proponendogli in sostanza l'affossamento di
ogni percorso di giustizia. E ciò in nome della risurrezione della Wehrmacht,
cioè dell'esercito tedesco, necessario alla Nato in funzione anti-Urss. Taviani
pose una sigla di assenso sulla lettera di Martino. E oggi non intende «minimizzare»:
«Il mio consenso — ammette — contribuì certamente a creare» quella che il
settimanale definisce «la sepoltura della giustizia». Sottolinea tuttavia che
«la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise»: «In quei giorni
l'Unione Sovietica stava invadendo l'Ungheria ... Aveva ragione Martino a
prevedere che un eventuale processo per l'orrendo crimine di Cefalonia avrebbe
colpito l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per
l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo...».
Dura la reazione della medaglia d'argento al valor militare Amos Pampaloni, uno
dei pochi sopravvissuti alla strage: «Il senatore Taviani si dovrebbe solo
vergognare. È da tempo che sapevo del suo tacito assenso sull'insabbiamento
dell'inchiesta della magistratura militare sull'eccidio di Cefalonia, cosa che
oggi rivendica quasi come un'azione meritoria compiuta in nome di una ragione di
Stato a mio giudizio incomprensibile». «La cosa ancora più grave — ha detto
ancora Pampaloni — è che negli anni Cinquanta non solo fu insabbiata la
strage di Cefalonia, ma anche le inchieste di altri 690 crimini nazifascisti».
Ma dell'insabbiamento di tali crimini Taviani non sa niente. «La tragedia di
Cefalonia, orribile, feroce, inumana — dice — era stata provocata dalla
guerra, era una coda della guerra, un qualcosa che era avvenuto tra militari.
Ben diverso lo sterminio di civili, bambini, donne, vecchi, uomini, gente
indifesa, uccisa spesso neanche per rappresaglia. No, io non detti quell'ordine,
non l'avrei mai dato neanche per ragioni di Stato».
La Nazione
10.11.2000
INCHIESTA
Il capitano Pampaloni: «Nel dopoguerra nessuno volle ascoltarci, nemmeno in
Italia»
«La raccolta di firme per ricordare le migliaia di militari italiani massacrati
a Cefalonia dalla Wehrmacht dopo l’8 settembre del ’43 è un atto
importante, ma rimaniamo perplessi sulla sua efficacia». Amos Pampaloni e
Marcello Venturi, per anni gli unici a conservare, attraverso strade diverse, la
memoria storica di quell’episodio di guerra, uno dei primi della Resistenza,
manifestano entrambi il loro pessimismo sulle reazioni dell’opinione pubblica
e dei governi italiano e tedesco, ai quali è rivolto l’appello dei fautori
della raccolta. Sono trascorsi 57 anni, troppi, senza che da parte delle
istituzioni italiane fossero prese iniziative. E le scuse dei tedeschi,
sollecitate nell’appello, per quel massacro compiuto contro militari inermi,
avrebbero il sapore di una semplice formalità. Amos Pampaloni, fiorentino di 90
anni, era capitano d’artiglieria e fu lui a prendere l’iniziativa contro i
tedeschi ordinando alla sua batteria di far fuoco. Lo conferma la motivazione
della medaglia d’argento assegnatagli: «Fu il primo italiano a sparare contro
i tedeschi e ad animare la Resistenza a Cefalonia». Dopo la resa, messo al muro
dai nemici per essere fucilato insieme ad altri commilitoni, rimase ferito e si
salvò fingendosi morto. Venne aiutato dagli abitanti dell’isola che lo
curarono e lo misero in contatto con i partigiani. «Sono anni che i reduci di
Cefalonia chiedono al governo di ottenere almeno la Croce di cavalieri al merito
come quella di Vittorio Veneto assegnata ai combattenti della Prima guerra
mondiale - dice amareggiato - ma i ministri e i parlamentari li hanno sempre
ignorati. Ormai è tardi per far qualcosa».
Marcello Venturi, scrittore e storico, fu il primo, con il suo libro Bandiera
bianca a Cefalonia , pubblicato nel ’63 da Feltrinelli, a descrivere quel
massacro. «Mi occupai di Cefalonia dopo aver letto un articolo di Pampaloni -
racconta -; mi recai sull’isola e riuscii a ricostruire quel drammatico
episodio». Dopo quell’opera, su Cefalonia è ripiombato il silenzio fino a
quando, la scorsa estate, una troupe americana si è recata nell’isola dello
Jonio per girare un film ispirato a un romanzo dello scrittore inglese Louis De
Bernière. Il libro, Captain Corelli’s mandolin (pubblicato in Italia da
Longanesi col titolo Una vita in debito ), ricostruisce quell’episodio
descrivendo gli italiani con i luoghi comuni cari a certi inglesi: poco
coraggiosi, amanti della musica e delle donne.
«È servito però ad attirare l’attenzione dei media e dell’opinione
pubblica su quella tragedia», afferma Venturi. Infatti ne hanno parlato i
giornali; la Rai ha trasmesso alcuni servizi e pochi mesi dopo è uscito il
libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi), che descrive nei
particolari il dramma dei militari italiani nell’isola. Proprio nel corso
della presentazione ad Acqui Terme dell’opera di Caruso, è nata
l’iniziativa di presentare la petizione per la raccolta delle 11.700 firme, un
numero che corrisponde ai militari della divisione «Acqui» di stanza a
Cefalonia.
La battaglia era scoppiata il 13 settembre dopo che il comando tedesco aveva
imposto agli italiani di cedere le armi. C’erano stati alcuni giorni di
trattative promosse dai tedeschi, il cui presidio si trovava in difficoltà per
scarsità di effettivi (uno a dieci rispetto agli ex alleati) e mezzi. In un
primo tempo gli italiani, comandati dal generale Gandin, manifestarono
incertezza soprattutto perché da Badoglio era arrivato l’ordine generico di
non cedere, mentre il comando di Atene aveva ordinato di arrendersi. Gli scontri
scoppiarono perché, nonostante le trattative in corso, i tedeschi
incominciarono a fare affluire rinforzi proprio quando Gandin aveva ordinato
alle sue truppe di abbandonare le posizioni strategiche. La resa avvenne dieci
giorni dopo: gli italiani caduti nei combattimenti furono 1300 e più di 6000,
compreso il comandante, vennero massacrati dalla Wehrmacht, nonostante avessero
deposto le armi. Soldati con le mani alzate uccisi a colpi di mitragliatrice;
centinaia di feriti scaraventati fuori dagli ospedali e trucidati. Degli
scampati, circa 3000 morirono nelle stive delle navi affondate dalle mine
durante il trasporto al Pireo.
L’eccidio fu voluto dal generale Hubert Lanz, comandante dell’armata tedesca
dell’Epiro, che in seguito si giustificò affermando che l’ordine venne
direttamente da Hitler.
A 57 anni da quel massacro le migliaia di vittime non hanno ancora ottenuto
giustizia. Di Cefalonia si occupò il Tribunale di Norimberga ma solo perché
Lanz comparve come imputato per altri crimini commessi nell’Epiro. Nelle sue
deposizioni piene di falsità, il generale definì i militari italiani non
combattenti, ma «ribelli» e «franchi tiratori» che andavano quindi fucilati.
Fu poi la Procura generale di Dortmund a occuparsi dell’eccidio con
un’istruttoria aperta dopo l’uscita del libro di Venturi. Il procuratore di
Stato Nachtweh ascoltò 231 testimoni, tutti tedeschi tranne due italiani,
Venturi e il cappellano militare Ghilardini, e due greci. Dopo quattro anni, nel
’69 fu emanata la sentenza di archiviazione. Pochi giorni prima il quotidiano
tedesco Die Welt aveva criticato duramente il libro di Venturi definendolo «la
solita falsa campagna contro l’esercito tedesco». Ma se l’archiviazione di
Dortmund venne data per scontata, è sconcertante il fatto che in Italia non ci
furono reazioni. La nostra magistratura si era mossa prima, ma in senso
contrario. L’unico atto giudiziario su Cefalonia era stato promosso nel ’54
per iniziativa di Roberto Triolo, un giudice genovese che aveva perso il figlio
in quell’isola. In seguito alle pressioni del magistrato, dopo una lunga
vicenda giudiziaria, la Procura militare nel ’57 chiese il rinvio a giudizio
di Pampaloni e di altri ufficiali italiani per aver compiuto atti ostili contro
i tedeschi e aver quindi provocato la loro reazione. Ma alla fine prevalse il
buonsenso e il giudice istruttore prosciolse gli imputati.
«L’ex ministro Taviani ha spiegato recentemente che il governo tacque per non
irritare la Repubblica federale tedesca, alleata preziosa durante la Guerra
fredda - ricorda Venturi -. Ma secondo quella logica non avrebbero dovuto essere
ricordate neanche le vittime delle Ardeatine, di Marzabotto e di Sant’Anna di
Stazzema».
Ettore Vittorini
Corriere della Sera
19.12.2000
La Bandiera di Venturi vittima di un plagio
Dopo l’armistizio, nel settembre ‘43, la Divisione Acqui che presidiava
l’isola eolia di Cefalonia, fu sterminata dalle truppe germaniche per avere
gli italiani rifiutato la resa incondizionata. I militari trucidati — erano
artiglieri — furono più di novemila. E’ stata una delle pagine più
drammatiche della nostra sconsiderata storia bellica, ma fu anche quella meno
ricordata a fronte di altri eventi del tempo, incluso quello partigiano, quasi
che l’essere stati uccisi con le stellette sulla divisa gravasse come
un’onta sull’intero esercito italiano.
Un regista americano, John Madden, si è ora ripromesso di ricavarne un film,
con due noti attori protagonisti: Nicholas Cage e Penelope Kruz. Gli elementi
per imbastire la trama li ricaverà da un autore inglese, Louis De Bernieres,
che sta ottenendo vasto successo con un libro: "Il mandolino del capitano
Corelli", se tradotto in italiano. Purtroppo, già il titolo,
particolarmente irridente, dà la misura dei luoghi comuni che perseguitano gli
italiani nel resto del mondo: una chitarrata, "o sole mio", una pizza,
e il gioco è fatto: puoi anche andare "a farti morì ammazzato".
C’è pure un’ombra di plagio in una vicenda sentimentale che molto ricorda
quella analoga del capitano Aldo Puglisi con Caterina Pariotis nella
rievocazione, proposta con precisa documentazione e sofferta partecipazione, da
Marcello Venturi in "Bandiera bianca a Cefalonia", Pubblicato nel
1963, questo libro ebbe immediato successo e fu tradotto in quattordici lingue.
Nulla in esso fu nascosto: dallo sbando di migliaia di uomini lasciati in balia
di se stessi — qui come in altri innumeri fronti e negli stessi confini della
patria — all’estenuante tergiversare degli alti comandi che favorirono le
spietate soluzioni finali decise dall’ex alleato. Ma proprio per questo suo
crudo realismo, che aveva anche attirato le attenzioni di Simone Wiesenthal, si
giocò al nascondino perché la bruciante verità non pareva consona con
l’opportunismo politico, almeno in quel periodo.
Ora questo libro è ricomparso nella collana: "Ventesimo Secolo. La Storia
e gli Scrittori" della casa editrice "Le Mani" di Recco. La
stessa collana, diretta da Francesco De Nicola, che ha già pubblicato opere di
Giovanna Zangrandi, Liana Millu, Elena Bono, ha pure riproposto "Combattere
con le ombre" di Nelio Ferrando, la cui prima edizione è del 1949.
L’autore genovese, colto in Grecia dall’armistizio — era tenente di
fanteria — e rinchiuso in diversi lager tedeschi, ha descritto dal vivo questa
situazione sua e dei suoi colleghi d’arma, in pagine che restano testimonianza
dell’assurdità della guerra, delle sue atrocità, alle quali solo si
sopravvive nel nome della propria dignità e della propria libertà interiore.
Anche qui, come pure è accaduto per la drammatica vicenda di Cefalonia, il
sottile filo dei sentimenti lega due vite, quella di Alberto e di Fula, quasi a
ricordare che il volersi bene, nel segno della comprensione e della solidarietà,
non ha confini territoriali. Sono pagine delicatissime, con un uso della buona
lingua — qui, come in Venturi — della quale si rischia oggi di perdere ogni
fragranza, che delineano anche psicologicamente figure palpitanti e solo in
apparenza fragili. Sono due libri, dunque, che vivono anche nel segno
dell’arte e non solo perché da considerare classici della letteratura di
guerra.
Piero Pastorino
Marcello Venturi: Bandiera bianca a Cefalonia. Prefazione di Sandro
Pertini. Introduzione di Francesco De Nicola. Le Mani, Recco 2000, pagine 248,
lire 25 mila.
Nelio Ferrando: Combattere con le ombre. Prefazione di Giovanni Descalzo.
Introduzione di Pino Boero. Le Mani, Recco 2000, pagine 130, lire 22 mila.
La Repubblica
19.12.2000
Le cifre del massacro
Nel settembre del 1943 la divisione "Aqui" – dislocata nelle isole
greche di Cefalonia, Corfù, Zante ed altre minori – era composta da circa
12mila uomini. I combattimenti – durissimi – iniziarono il 13 settembre. Il
23 settembre, dopo la resa, si contarono oltre 1.300 caduti in combattimento. Più
di 6mila – compreso il generale Gandin – furono massacrati successivamente
dalla Wehrmacht nonostante avessero deposto le armi. Degli scampati circa 3mila
morirono nelle stive delle navi affondate durante il trasporto al Pireo. Gli
altri vennero dapprima condotti nel campo denominato "Marginot" di
Atene e poi deportati nei lager di Muhlberg, Munster, Slonim e, soprattutto,
Zeithan: molti non sono tornati. Di essi padre Luca M. Ayroldi catturato a Corfù
dopo l’otto settembre e deportato in Germania nel campo C di Zeithan in
Sassonia scrive nelle sue memorie: (…) "Morte di inedia! E’ la pura
verità, anche se nelle cartelle cliniche veniva scritto TBC polmonare; questa
era la conseguenza ultima della gran fame patita. E tutti i ricoverati del campo
C furono vittime di quel male… Unico rancio insufficiente, l’umidità delle
baracche sconquassate, la febbre in continuo aumento, l’impossibilità di
soddisfare la sete…tutto seminava disperazione desolazione e morte! In Zeithan
900 soldati sono morti in meno di due anni, Zeithan è il campo della morte, da
cui i nostri caduti invocano ancora il nome dell’Italia"(…).
Bibliografia
Per chi fosse interessato a saperne di più sull’eccidio di Cefalonia e sulla
sorte dei nostri soldati nei lager nazisti allego la bibliografia.
Giuseppe Moscardelli - 1945
Don Romualdo Formato - L’eccidio di Cefalonia – 1946 (ristampa Ed. Mursia
1968)
Don Luigi Ghilardini - I martiri di Cefalonia – 1962
Marcello Venturi - Bandiera bianca a Cefalonia - Feltrinelli 1963
Louis De Bernière - Captain Corelli’s mandolin (in italiano "Una vita in
debito" Longanesi)
Alfio Caruso – Italiani dovete morire – Longanesi 2000
De Bernart - Da Spalato a Wietzendorf: 1943/43 (Storia degli internati militari
italiani) Ed. Mursia
Melodia G. - La quarantena (Gli italiani e gli altri nel lager di Dachau) Mursia
Ed.
Reviglio A. – La lunga strada del ritorno (l’odissea dei soldati italiani
internati nella Germania nazista) Mursia Ed.
Grazia Perrone
in : www.pavonerisorse.to.it/storia900/strumenti/cefalonia.htm
Quei giorni di Cefalonia
Arriva
venerdì 25 maggio I giorni dell'odio e dell'amore-Cefalonia
del regista veneto Claver Salizzato con Daniele Liotti, Mandala
Tayde, Ricky Tognazzi e Ugo Pagliai.
di
Betty Giuliani
ROMA - L'eroica resistenza della Divisione Acqui, massacrata dai tedeschi dopo l' 8 settembre, è una strage dimenticata, come molti altri tragici episodi della nostra storia più o meno recente. Una ventata di memoria però sembra soffiare dal cinema, strano a dirsi anche quello italiano, votato quasi esclusivamente (salvo rare e per fortuna valide eccezioni) alla commedia.
A rinfrescarci la memoria sulla
strage di Cefalonia che tra il 13 e il 22 settembre del '43 costò
la vita a quasi diecimila soldati italiani, dopo che in marzo è
tornata di attualità sulle prime pagine dei quotidiani, arriva
venerdì 25 maggio nelle sale distribuito dalla Columbia il film I
giorni dell'odio e dell'amore - Cefalonia del regista veneto
Claver Salizzato con Daniele Liotti, Liberto Rabal, Mandala Tayde,
Ricky Tognazzi, Ugo Pagliai e Francesco Venditti. L'autore si è a
lungo documentato sugli episodi, su quella battaglia, con l'aiuto
di uno dei pochi sopravvissuti: il friulano Olinto Perosa, 80 anni
il prossimo 28 maggio, che ha scritto il libro Divisione Acqui
figlia di nessuno, memorie di un fante superstite. Battendo sul tempo gli americani, che
sulla tragica vicenda stanno per sfornare Il mandolino
del capitano Corelli diretto dall'inglese John Malden
con Nicolas Cage, in attesa dell'arrivo di Texas '46 di
Giorgio Serafini ambientato nel campo di concentramento di
Hereford (in cui finirono centinaia di soldati italiani
catturati in
"Questo film è dedicato ai caduti dimenticati della divisione Acqui che hanno combattuto senza speranza e sono stati masacrati per la dignità del loro paese - dice il regista - e a tutti i senza patria perché possano un giorno non lontano ritrovarla e riannodare così i fili delle proprie radici offese". Per girarlo ha avuto a disposizione solo il fondo di garanzia e il produttore Enzo Gallo della Metropolis Film gli ha dato il via senza alcun'altra copertura finanziaria, neppure televisiva. La Rai ci ha però ripensato, acquistandone pochi giorni orsono i diritti. E il film, che ha un taglio molto televisivo, sarà ben gradito dal pubblico del piccolo schermo, nutrito a suon di fiction.
Delle tre versioni montate Salizzato ha scelto di portare sullo schermo quella che parte non dalla battaglia ma da una storia che, per tutto il primo tempo del film e per la gioia degli amanti del melò, dà ampio spazio ai sentimenti dei due fratelli sudtirolesi Wolfgang (Liotti) e Helberg (Rabal). Per il patto di autodeterminazione scelgono il primo di restare in Italia, il secondo la Germania, portandosi dietro anche la bella moglie del fratello (Mandala Tayde, attrice dai tratti somatici più indiani che sudtirolesi, ma "voluta" dai distributori del film). Si ritroveranno a combattersi su fronti opposti.
"A Cefalonia si sono combattuti tra fratelli - spiega il regista - nel senso che i tedeschi fino ad allora erano i più fidati compagni d'armi dei soldati italiani. Ho voluto simbolizzarlo nella figura dei due fratelli, non volevo essere fedele a null'altro che agli episodi". "Forse mi giudicheranno un eroe o magari un traditore, ma siamo soltanto uomini soli che hanno dovuto decidere del loro destino" dice nel film un convincente Ricky Tognazzi con indosso la divisa del generale Antonio Gandin, comandante della divisione. "Il mio è un ruolo piccolo ma significativo - spiega l'attore - in una storia importante che spero sia ricordata. Il cinema deve fissare la memoria degli spettatori. Io conoscevo questo momento particolarmente tragico della storia italiana perché dovevo partecipare a un altro progetto che non è più andato in porto. Fu il primo momento vero di coscienza civile collettiva di un popolo defraudato ma con una forte volontà di affermazione di sé. E' un paradosso straordinario che la coscienza collettiva si manifesti attraverso un massacro".
Se avesse diretto lui questo film lo avrebbe fatto in modo diverso: "E' indubbio, ma qui ho fatto solo l'attore - precisa Tognazzi - ho dovuto rendere l'autorità e allo stesso tempo l'umanità di un personaggio". E c'è riuscito. E' invece discutibile la scelta del regista di sacrificare la parte storica alla parte sentimentale, soprattutto nel primo tempo. "E' stata scelta una strada metaforica e simbolica per raccontare la tragedia di un conflitto incivile che ha lacerato le famiglie - risponde l'attore -. I modi di affrontare una storia sono molteplici, ognuno sceglie la sua, si porta la propria croce".
(25 MAGGIO 2001, ORE 16:15)
Dal sito: http://www.ilnuovotg.it/nuovo/foglia/0,1007,51211,00.html
I giorni dell'amore e dell'odio, dedicato ai caduti della divisione Acqui a Cefalonia dopo l'8 settembre 1943
I
giorni dell'amore e dell'odio racconta del conflitto tra due fratelli del sud Tirolo che
nelle opzioni concordate da Mussolini e Hitler si dividono: uno si
trasferisce in Germania, l'altro si sente italiano. Di mezzo c'è anche
una donna (Mandala Tayde), che sposerà l'italiano ma fuggirà con il
tedesco. I due fratelli si incontreranno proprio a Cefalonia, l'uno contro
l'altro in un duello 'western' non solo simbolico.
"Oltre ad essere arrivati prima, noi siamo stati fedeli agli episodi,
ai fatti. Alla base del mio film -dice Salizzato, già collaboratore di
Sergio Leone cui il film, con Alessandro Blasetti, è dedicato - c'è
un'accurata ricerca negli archivi dello Stato maggiore dell'esercito, ci
sono alcuni libri come 'Bandiera bianca a Cefalonia' di Venturi, molto più
bello di quello dal quale è stato tratto 'Corelli', e soprattutto la
consulenza dei reduci".
Il film di Salizzato inoltre ha avuto, a differenza di quello di Madden,
l'appoggio sulla sceneggiatura dell'Associazione nazionale reduci e
famiglie dei caduti della divisione 'Acqui' e la collaborazione di Olinto
Perosa, 80enne reduce di Cefalonia che su quegli eventi ha anche scritto
un libro. "Il film è fedele -assicura Perosa- e racconta anche degli
episodi inediti, come quello in cui il generale Grandin (Ricky Tognazzi,
ndr) chiede agli stessi soldati, con un referendum, se arrendersi ai
tedeschi o continuare a combattere. Anche per questo rappresenta un fatto
storico importante". Aggiunge Ricky Tognazzi: "Conoscevo questa
pagina di storia, meno nota di quella che dovrebbe essere. Il cinema
dovrebbe tentare di fissare la memoria. Io non ho vissuto la guerra, e
questa è una storia giusta da raccontare". Appello chiaramente
accolto da Salizzato, che anticipa il film che Enzo Monteleone sta
preparando su El Alamein, altra pagina nera della storia. "C'è stata
una rimozione collettiva da parte del giovane cinema italiano della storia
-dice Salizzato- L'80% dei nostri film sono commedie, o storie che non
riescono a guardare a più di cinque centimetri dall'ombelico: il cinema
italiano ha rimosso la storia".
(25 maggio 2001)
Dal sito: http://kwcinema.play.kataweb.it/templates/kwc_template_3col/0,5271,117230-20,00.html
CEFALONIA:
VERITA' "USA" E GETTA
Giovedì 24 Maggio 2001
di Daniela Cannizzaro
L’8
settembre 1943 la Divisione Acqui, forte di 525 ufficiali e 11.500
soldati, presiede le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del
Generale Antonio Gardin. Il capovolgimento di fronte li obbliga a una
confronto diretto con le truppe tedesche di stanza nella zona. Tenere
fede all’Armistizio significa per loro: cedere le armi o resistere.
Con estremo coraggio, il 15 settembre, l’esercito italiano si impegna
in una battaglia che si protrae per un settimana senza esclusione di
colpi, compreso l’intervento aereo degli Stukas, cacciabombardieri
tedeschi.
La storia ricorda quei giorni, come i più sanguinosi di tutto il
secondo conflitto mondiale. Segnati dall’indomita resistenza della
Divisione Acqui contro i tedeschi e dalla conseguente reazione
dell’esercito di Hitler.
A Cefalonia morirono 9.500 soldati e 390 ufficiali. Tragici eventi che
non si dimenticano.
Il mandolino del Capitano Corelli - Captain Corelli’s Mandolin,
film prodotto e interpretato da Nicolas Cage ne è una testimonianza. Ma
non è l’unica. Il regista Claver Salizzato ha infatti
realizzato una trasposizione cinematografica tutta italiana del
sanguinoso conflitto di Cefalonia. Si tratta de I
giorni dell’amore e dell’odio, interpretato, tra gli altri,
da Daniele Liotti, Liberto Rabal, Francesco Venditti, Ricky Tognazzi,
Riccardo Salerno e Ugo Pagliai.
Il
mandolino del Capitano Corelli,
coproduzione franco, anglo- americana, è diretto da John Madden (Shakespeare
in Love) ed è liberamente ispirato al romanzo scritto da Louis de
Bernieres.
Il film seguirà nelle sale italiane l'uscita de I giorni
dell’amore e dell’odio. Una precedenza di diritto, che fa
particolarmente onore a Salizzato.
E mentre Nicholas Cage sarà protagonista della travolgente storia
d’amore tra un soltato italiano e un bellezza isolana (Penelope Cruz),
decisamente più conflittuale si preannuncia il film italiano. Che con
una (consapevole?) vena pacifista inserisce all’interno della vicenda
bellica un ulteriore scontro fratricida.
Il film, prodotto dalla Metropolis Film, con il contributo del
Dipartimento dello Spettacolo, sarà distribuito nelle sale dalla
Columbia.
Durante la più accesa delle battaglie del secondo conflitto mondiale è
necessario fare i conti con la Storia. Agli Usa, lasciamo volentieri le
irresistibili attrazioni esotiche(?!).
Dal sito: http://www.cinemazip.it/SArticolo.asp?sarticoloID=134
Cinema:
l'autore del libro difende La Cefalonia di Nicolas Cage
L''autore del bestseller sulla strage di Cefalonia 'Il mandolino del
capitano Corelli' ha difeso l''omonimo film americano di John Madden con Nicolas
Cage, in uscita in Europa. Dopo le stroncature della critica alla prima del film
a Londra, Louis de Bernieres ha affermato che 'si e'' superato il limite' e sono
state espresse riserve 'del tutto irragionevoli'. 'Io credo che sia stato colto
lo spirito del libro, in particolare nella scena del massacro dei giovani
italiani', ha spiegato de Bernieres, che ha assistito personalmente alle riprese
del film in Grecia. Lo scrittore ha promosso anche il protagonista, Cage: 'Corelli
me lo immaginavo piu'' piccolo e vivace, lui e'' alto e misurato: ma quando gli
ho visto interpretare alcune scene l''ho trovato assolutamente adatto'.
'Il mandolino del capitano Corelli' arrivera'' in Italia dopo l''estate.
Attualmente e'' in uscita un altro film sulla strage di Cefalonia, 'I giorni
dell''odio e dell''amore' dell''italiano Claver Salizzato.
Dal sito: http://www.ticinonews.ch/info/notizie/991026742/ticinonews.html
10/4/2001
Louis de Bernières, Il mandolino del capitano Corelli
E’ una storia
di guerra e d’amore quella raccontata da Louis de Bernières ne Il mandolino
del capitano Corelli che Guanda ripubblica a poche settimane dall’uscita del
film di John Madden con Nicholas Cage e Penelope Cruz. Durante la seconda guerra
mondiale, sullo sfondo della campagna di Albania e Grecia — condotta da un
esercito italiano male armato e impreparato —, si intrecciano le vicende di un
soldato omosessuale, di un capitano che vive per la musica, di un medico saggio
e della figlia caparbia, di un pescatore che diventa comunista e partigiano, di
una vecchia madre che riscopre la vocazione matriarcale nei confronti di una
famiglia non sua e di altri personaggi che tratteggiano un affresco vivace. Il
romanzo di de Bernières — che ha avuto il merito di riscoprire la tragedia di
Cefalonia — consente al lettore di sorridere e commuoversi al tempo stesso.
La Cefalonia del romanzo sembra un’isola immutata dal tempo degli dei, dove
pescatori e pastori compiono gli stessi gesti degli avi e degli avi degli avi.
La guerra è lontana, poco cruenta anche dopo l’occupazione italiana.
L’amore che nasce — pur tra mille difficoltà e con la consapevolezza che
divide oppressi e oppressori — tra la bella Pelagia e il capitano innamorato
della musica non deve quindi sorprendere. In loro sono stati identificati una
ragazza cefallena e un soldato cremonese, ma le storie d’amore simili devono
essere state numerose.
Ma l’ottusità della guerra è in agguato, con la sua ferocia e le sue leggi
spietate. Dopo l’8 settembre del ’43, i soldati italiani a Cefalonia
decidono di non cedere le armi ai tedeschi, ex alleati diventati nemici. Sarà
un eccidio, un eccidio di cui solo oggi si comincia a parlare e che la storia
ufficiale ha troppo a lungo dimenticato. Ed è curioso che la tragedia di
Cefalonia, pur con le imprecisioni consentite a un romanzo, abbia ispirato uno
scrittore inglese e successivamente una produzione cinematografica
internazionale.
Louis de Bernières, Il mandolino del capitano Corelli, traduzione di Roberta
Rambelli, Parma, Guanda 2001, pagine 455, lire 28mila.
Dal sito: http://www.cremonaonline.it/contenuti/257_37899.html
Da
Cefalonia alle Ande
C’è un legame tra
le due prossime missioni di Ciampi: la cattiva coscienza dell’Italia
Giovedì
1° marzo Carlo Azeglio Ciampi andrà a Cefalonia per rendere omaggio agli
oltre 9 mila soldati italiani della divisione Acqui uccisi dai tedeschi nel
settembre 1943. Il 10 marzo partirà per l’Argentina. Due viaggi di
Stato, certo, con l’inevitabile contorno di ufficialità protocollare e
spontaneità non sempre genuina. Ma stavolta queste visite avranno qualcosa di
particolare da dire, qualcosa che potrebbe realmente parlarci nel profondo, se
avremo voglia di distrarci un attimo dalla bagarre elettorale.
C’è un legame tra le due missioni di Ciampi: la cattiva coscienza
dell’Italia. A Cefalonia il presidente della Repubblica non dovrà tanto,
come sostengono alcuni, chiedere le scuse della Germania. Dovrà soprattutto
chiedere idealmente perdono a nome dell’Italia: un Paese che per
cinquant’anni ha relegato in un angolo il crimine più sanguinoso mai commesso
in guerre recenti su propri soldati.
I militari della Acqui vennero sterminati dalla Wehrmacht perché l’otto
settembre l’Italia si era arresa agli americani, perché nel caos prodotto
dalla fuga di Pietro Badoglio e dei Savoia il contingente restò sull’isola
senza ordini e senza difesa, perché non volle cedere le armi agli ex alleati
tedeschi. Ma quei militari vennero poi cancellati dalla memoria nazionale perché,
in quando soldati fedeli al re, non erano ascrivibili all’ideologia della
Resistenza dominante per decenni.
Di questa straordinaria rimozione sono stati forniti altri motivi, di ragion di
Stato. Paolo Emilio Taviani, negli anni Cinquanta ministro della Difesa per la
Dc, ha detto che la sordina servì a non compromettere i legami militari con la
Germania nella Nato. In questi giorni affiora un’altra spiegazione: erano in
gran parte tirolesi (come spesso accadeva nella Wehrmacht per le operazioni più
sanguinose) gli uomini della divisione Edelweiss che compì la strage di
Cefalonia. Alcuni ufficiali avrebbero formato il primo nucleo dirigente della Südtiroler
Volkspartei, partito strategico fin dal dopoguerra per la questione dell’Alto
Adige.
Fatto sta che per decenni sono
cadute nell’oblio tutte le memorie di parte italiana, a cominciare dal
romanzo Bandiera bianca su Cefalonia di Antonio Venturi del 1963. Ci
volevano un libro inglese, Il mandolino del capitano Corelli, di Louis de
Bernieres, e soprattutto un film di Hollywood con Nicolas Cage per rinfrescarci
la memoria. Libro e film molto contestati dai nostri storici, o perché
caricaturali o perché non politicamente corretti. Ma, a parte gli scampati alla
strage, chi ha il diritto di criticare?
L’Italia non ha onorato quei militari così come usualmente non rende omaggio
ai propri soldati. Quasi tutti i monumenti ai caduti risalgono al fascismo.
Non abbiamo un Veteran day come in molti altri paesi. Un tempo si celebrava
il 4 novembre, anniversario della Grande guerra. Poi parve sconveniente e la
festa venne abolita. Oggi è stata riabilitata, ma è solo un giorno rosso sul
calendario, buono per stare a casa o fare straordinari, nessuno studente (e
forse neppure qualche professore) sa a che cosa si riferisce. C’è da stupirsi
se della guerra si celebrano gli eroi civili, quelli della Resistenza, e mai i
militari? Se non solo non si parla di Cefalonia, ma neppure di El Alamein,
Vittorio Veneto, di Durand de La Penne, dei mas, perfino di Lepanto? Se non
si scrivono libri né si girano film, tranne quelli in cui i nostri soldati
appaiano come simpatici lavativi, bravi guaglioni dal cuore d’oro?
Dal sito:
http://www.mondadori.com/panorama/capolitica/viaggi.html
ANNO 1943
LA FUCILAZIONE DEI QUATTROMILA SOLDATI
italiani che presidiarono l'isola greca fino al giorno dell'armistizio
(settembre 1943). Dopo la resa vennero passati per le armi dai tedeschi.
Perché accadde?
LA VERITA' SULLA STRAGE DI
CEFALONIA
di
PAOLO DEOTTO
Cefalonia:
isola greca del gruppo delle Ionie, a circa 250 km dalle coste italiane,
superficie kmq. 752, abitanti 58.000. Cefalonia: tomba degli italiani. Così
definita dai greci che, nel 1943, non avevano obiettivamente nessun motivo per
volerci bene: eravamo invasori. Furono dunque i greci a scavare la tomba agli
italiani? Ciò avrebbe avuto una sua logica, se di logica si può parlare quando
ci si immerge nella situazione patologica che è comunque una guerra.
No: Cefalonia fu la tomba degli italiani ad opera degli alleati tedeschi, e ad
opera di una serie sciagurata di circostanze, di responsabilità, di incredibili
leggerezze. Nell'isola greca fu distrutta la Divisione Acqui, comandata dal
generale Antonio Gandin, in uno degli episodi più brutali del secondo conflitto
mondiale, e in particolare di quel periodo di tragica confusione che si creò,
dopo le ore 18.30 dell'8 settembre 1943, quando gli Alleati comunicarono al
mondo l'armistizio firmato dall'Italia a Cassibile cinque giorni prima,
all'insaputa degli alleati tedeschi.
Cefalonia era stata occupata dalle truppe italiane il 1° maggio del 1941, nel
quadro delle operazioni militari contro la Grecia. La forza di presidio, una
parte della quale dislocata sull'isola di Corfù, era costituita dalla Divisione
Acqui, da cui dipendeva anche il Comando Marina di Argostoli (il capoluogo),
dotato di batterie costiere.
L'organico era di circa 11.000 uomini, e rimandiamo il lettore all'elenco
dettagliato che può trovare in coda all'articolo, nel quale sono enumerati i
diversi reparti che costituivano la divisione.
Tra il 5 e il 10 agosto del 1943 era sbarcato a Cefalonia anche un contingente
tedesco di 2.000 uomini, al comando del tenente colonnello Hand Barge.
Ufficialmente giunti di rinforzo ai commilitoni italiani, i soldati tedeschi
erano stati in verità inviati da Hitler con precisi compiti di vigilanza, come
in molte altre analoghe situazioni, facendosi sempre più tenue la fiducia del
dittatore tedesco nei confronti del governo italiano che, giova ricordarlo, era
da pochi giorni guidato dal maresciallo Pietro Badoglio, dopo la destituzione e
l'arresto di Mussolini, avvenuti in seguito ai risultati della seduta del Gran
Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943.
Le manifestazioni pubbliche di giubilo avvenute dopo la caduta di Mussolini, la
diffusa convinzione popolare che per l'Italia la guerra fosse finita, peraltro
bloccata dalla doccia fredda del primo proclama di Badoglio (... "la
guerra continua"... ) avevano acuito la tensione latente da tempo
nell'alleanza tra Roma e Berlino. I tedeschi erano convinti (e i fatti avrebbero
dato loro ragione) che gli italiani stessero cercando una pace separata.
Il generale Gandin manteneva però rapporti cordiali con i tedeschi, grazie
anche alla croce di ferro conferitagli personalmente da Hitler nel precedente
anno di guerra. Lo sbarco a Cefalonia dei sodati tedeschi non portò
inizialmente nessun problema particolare alle forze di presidio italiane; il
reparto del tenente colonnello Hand Barge restava gerarchicamente subordinato al
comandante di divisione italiano, pur nel concetto tutto particolare che avevano
i tedeschi di subordinazione nei confronti di superiori italiani.
Poi anche su Cefalonia arrivò la notizia dell'armistizio.
Dobbiamo riportarci un attimo a quei giorni se vogliamo meglio capire quello che
avvenne. Nella seconda parte del 43 la guerra già volgeva al peggio per le
forze dell'Asse. Il 3 settembre le forze alleate erano sbarcate a Reggio
Calabria e a Villa San Giovanni, senza incontrare praticamente alcuna
resistenza. Quello stesso giorno il generale Castellano firmava a Cassibile
l'armistizio col generale americano Bedell-Smith, presente anche il generale
Eisenhower.
Con rara abilità, i dirigenti politici italiani riuscirono a rendersi invisi
sia agli alleati tedeschi, sia ai nemici anglo-americani, dei quali peraltro
cercavano di conquistare la fiducia. La figura ambigua del maresciallo Pietro
Badoglio, cresciuto all'ombra del "fascio" e divenuto capo del primo
governo non fascista italiano da oltre vent'anni e i comportamenti confusi del
Re, più preoccupato di salvare il salvabile della Casa, che dell'Italia,
ingenerarono nei tedeschi un atteggiamento di sempre più stretta vigilanza, che
si concretò nell'invio di forze ingenti attraverso il Brennero, con lo scopo
preciso di disarmare le forze italiane quando si fosse verificato il temuto
voltafaccia.
D'altra parte anche gli Alleati erano perplessi nei confronti delle nuove
autorità italiane: Badoglio cercava di tenere disperatamente il piede in due
scarpe, non volendo comprendere che comunque gli anglo americani non erano
disposti a particolari concessioni verso l'Italia e illudendosi di poter
ingannare i tedeschi.
La dichiarazione di guerra alla Germania, che peraltro non poteva avvenire senza
il consenso del Re, avverrà solo il 13 ottobre; oltre un mese di tentennamenti
e ambiguità verranno pagati duramente proprio da migliaia di soldati, lasciati
senza ordini, alla mercé di un alleato, non ancora ex, inferocito, e da
migliaia di civili, sottoposti ai duri bombardamenti che gli Alleati non
risparmiarono all'Italia neanche durante le trattative che avrebbe portato
appunto alla dichiarazione di guerra alla Germania.
Su Cefalonia arrivò l'8 settembre: un dispaccio radio della Stefani alle 19.45
comunicava quanto già comunicato dagli anglo-americani un'ora prima. Il
generale Gandin, come molti altri comandanti, si trovò inizialmente senza
direttive precise. Ordinò il coprifuoco e il pattugliamento dell'isola da parte
delle truppe italiane; conosceva i tedeschi e sapeva che da un momento all'altro
poteva arrivare la loro reazione. Il giorno successivo arrivò dal Comando di
Armata di Atene l'istruzione di "reagire con la forza ad ogni violenza
armata". Un ordine inutile, a ben vedere, essendo preciso dovere di ogni
militare di "reagire con la forza a minacce armate", ma che la diceva
lunga sulla confusione che iniziava a caratterizzare i comportamenti dei vertici
italiani. Quel giorno stesso il Re e il Governo si spostavano da Roma a
Brindisi. Si può parlare di trasferimento "in un altro punto del sacro e
libero territorio nazionale", come recitò il proclama del Re da Brindisi,
o si può parlare di fuga, termine più aderente a un trasferimento operato così
in fretta da scordarsi di lasciare direttive alle forze armate.
La sera del 9 settembre il Comando di Armata di Atene inviò un nuovo
radiogramma al generale Gandin, ordinandogli di cedere ai tedeschi le
artiglierie e le armi pesanti della fanteria, in ottemperanza agli accordi
intervenuti tra il Comando d'Armata e il Comando Superiore tedesco. In cambio i
tedeschi si impegnavano a riportare in patria tutti i soldati italiani. Questo
ordine contrastava con le clausole dell'armistizio e pertanto il generale Gandin
scelse una tattica di attesa, confidando in un chiarimento da parte degli organi
superiori. I tedeschi non forzarono i tempi, ma intanto fecero arrivare a
Cefalonia diversi pezzi di artiglieria. Il generale Gandin era conscio del fatto
che, pur in superiorità numerica, i suoi uomini potevano essere facilmente
attaccati dall'aviazione tedesca, né poteva essere sicuro della compattezza dei
suoi reparti, serpeggiando, soprattutto a livello di ufficiali subalterni, un
clima di rivolta contro i tedeschi e, di conseguenza, di rivolta contro lo
stesso Comando di Divisione, che stava cercando di prender tempo e di evitare
ogni azione militare contro quelli che restavano comunque alleati.
Tra consultazioni con i cappellani della Divisione (che propendevano per la
consegna delle armi al fine di evitare il temuto attacco tedesco) e riunione
degli ufficiali superiori, il generale Gandin riuscì ad arrivare fino al 13
settembre con la situazione ancora in sospeso. Quel giorno la situazione di
stallo ebbe il suo tragico sviluppo: a parte l'iniziativa autonoma del capitano
Apollonio, che fece aprire il fuoco con le artiglierie contro due pontoni da
sbarco tedeschi che doppiavano il Capo di San Teodoro (e che venne comunque a
riconfermare i timori del generale Gandin sullo scollamento in atto nella
Divisione), giunse dal Comando Supremo, finalmente risorto a Brindisi, l'ordine
di "resistere con le armi alle pretese tedesche di consegna degli
armamenti", a firma del sottocapo di Stato Maggiore, generale Rossi.
Incominciò la battaglia, con duemila tedeschi che non si esponevano al fuoco
dei soldati italiani, lasciando agli Stukas il compito di martellare senza pietà
le posizioni italiane. I soldati italiani resistettero fino al 22, giorno in cui
il generale Gandin, che già aveva perso oltre duemila uomini, si decise a
chiedere la resa. Da Brindisi, nonostante gli appelli radio dall'isola greca,
non era giunto alcun aiuto, e un'iniziativa del contrammiraglio Galati che con
due torpediniere, la Clio e la Sirio, aveva fatto rotta su Cefalonia per portare
armi e medicinali era stata bloccata dall'ammiraglio inglese Peters, poiché le
due navi erano salpate senza l'autorizzazione alleata.
Dal 22 al 25 settembre a Cefalonia si scatenò la vendetta tedesca: duemila
soldati già avevano trovato la morte sotto i bombardamenti tedeschi e in
combattimento. Altri quattromila furono fucilati, tra cui lo stesso generale
Gandin, che buttò a terra con sdegno la croce di ferro tedesca prima di cadere
sotto i colpi del plotone d'esecuzione. Nella terribile strage non mancarono i
comportamenti particolarmente efferati, inutili crudeltà aggiuntive in un
quadro generale di ferocia scatenata, con esecuzioni effettuate a colpi di
mitragliatrice per risparmiare tempo.
Ma la tragedia sembrava non voler abbandonare la Divisione Acqui. Quando la
rabbia tedesca fu placata e i soldati italiani superstiti vennero caricati su
piroscafi per essere trasferiti nei lager, tre navigli incapparono in un tratto
di mare minato. Altri tremila italiani perirono affogati.
Il macabro conteggio finale fu di 9.646 caduti, la quasi totalità della
Divisione.
Dopo la guerra si scatenarono diverse polemiche sui tragici fatti di Cefalonia,
che ebbero anche un seguito giudiziario (peraltro senza esiti) per gli episodi
di insubordinazione che erano avvenuti, e di cui sopra accennavamo, con la
ribellione di alcuni ufficiali subalterni che avevano assunto iniziative
autonome dal Comando di Divisione. Purtroppo, secondo un inveterato costume
nazionale, non mancò la corsa per appropriarsi di quei morti.
Francamente ci sembra che non valga neanche la pena di soffermarsi sul tentativo
di inquadrare la strage di Cefalonia nel quadro della lotta partigiana, non
foss'altro perché non esisteva ancora la minima struttura clandestina, politica
e militare, che possa giustificare questo inquadramento. Inoltre le
motivazioni che spinsero al combattimento le truppe italiane non furono di
carattere "politico". Abbiamo visto come l'ordine dello Stato
Maggiore del 13 settembre non lasciasse spazio agli equivoci, e se alcune
iniziative autonome anti - tedesche di singoli ufficiali vennero in seguito
contrabbandate come azioni partigiane, questo non ci stupisce, perché la nostra
storia patria è purtroppo ricca di inquadramenti politici effettuati dopo che
si è ben sicuri di essere dalla parte vincente.
Piuttosto invitiamo a leggere un'intervista interessantissima che ci ha
rilasciato uno studioso dei fatti di Cefalonia, l'avvocato Massimo Filippini:
qui il lettore troverà altri fatti specifici sui quali forse noi siamo stati
meno meticolosi dell'intervistato, del quale potremo forse non condividere tutti
i giudizi politici, ma non possiamo non apprezzare il valore
dell'approfondimento storico da lui effettuato, animato da una schietta ricerca
di verità.
Da parte nostra crediamo sia invece utile soffermarci su alcune riflessioni, in
mancanza delle quali il nostro lavoro diviene inutile e vuoto.
Anzitutto riflettiamo su un fatto: quando accade un crimine, oltre agli
esecutori materiali possono esserci altri, altrettanto colpevoli, pur senza aver
tirato personalmente il grilletto di alcuna arma.
Ricordavamo prima il clima particolare del "dopo 8 settembre": se
nulla può giustificare, dal punto di vista morale, uno scatenamento di ferocia
come quello che vide i tedeschi massacrare i soldati italiani dopo il
combattimento e dopo che questi si erano arresi, non possiamo però scordare che
i tedeschi si sentivano traditi, nè possiamo scordare un particolare nel
particolare: che erano stati effettivamente traditi dal governo italiano.
Questa affermazione, banale quanto si voglia, è però essenziale se si vuole
leggere con onestà la nostra storia recente.
I morti di Cefalonia pesano su diverse coscienze: sul governo italiano, che emanò
un ordine di resistenza (quello citato, del 13 settembre) senza preoccuparsi
minimamente delle conseguenze. Sugli alleati, che cinicamente lasciarono
massacrare i soldati italiani, non solo non muovendo, loro stessi, un dito, ma
bloccando l'unica iniziativa di soccorso, quella organizzata dal contrammiraglio
Galati. Sul Re, su Badoglio, sul generale Roatta, capo di Stato Maggiore, su
quanti il 9 settembre pensarono così precipitosamente a mettersi al sicuro da
scordarsi che da loro dipendevano centinaia di migliaia di uomini, poco armati
materialmente e moralmente, in balia di un alleato (non ancora "ex")
che non aveva mai dato prova di particolare dolcezza e remissività.
Il tempo rimargina molte ferite, e non è assolutamente nostra intenzione,
soprattutto per rispetto ai morti e al dolore delle loro famiglie, entrare a far
parte della schiera degli eterni polemisti. Per tutti invochiamo la pace e il
riposo, non stancandoci mai, però, di cercare testardamente la verità dei
fatti, aldilà di ogni iconografia ufficiale, di ieri come di oggi.
APPENDICE
LE FORZE IN CAMPO A CEFALONIA
La Divisione "Acqui" l'otto settembre 1943 presidiava l'isola di
Cefalonia con la maggior parte dei suoi effettivi ad eccezione del 18" Regg.
Fanteria del IIII Gruppo del 33^ Regg. Artiglieria e della 333^ batteria 2Om/m
dislocati nell'isola di Corfù. L'organico della Divisione Acqui all'8 settembre
a Cefalonia era così composto: 17 Reggimento Fanteria - 317 Reggimento Fanteria
- 33 Reggimento Artiglieria - 33 Compagnia Genio T.R.T - 31 Compagnia Genio
Artieri - 3 Ospedali da Campo. Negli ultimi tempi erano stati aggregati come
rinforzo due compagnie mitraglieri di Corpo d'Armata - una compagnia Genio
Lavoratori. Dalla Acqui dipendeva pure il Comando Marina di Argostoli, dotato di
tre batterie per la difesa costiera, una flottiglia di MAS e una flottiglia di
Dragamine, un reparto di Carabinieri e un reparto di Guardia Finanza. Il totale
delle truppe italiane si aggirava su undicimilacinquecento uomini fra sottouffíciali
e truppa e su 525 ufficiali. Nel mese di Agosto 1943 a integrare il presidio
Italiano era sbarcato nell'isola un contingente di truppe tedesche costituite da
un Reggimento granatieri di fortezza con 9 pezzi di artiglieria. Tale
contingente ammontava complessivamente a 1800 uomini fra cui 25 ufficiali al
Comando del Ten. Col. Hans Barge.
Bibliografia
Enciclopedia della Seconda Guerra Mondiale,
di Bruno P. Boschesi, Mondadori, Milano 1983
L'Italia nella Guerra Civile, di Indro Montanelli e Mario
Cervi, Rizzoli, Milano 1983
Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza, vol. 1°, La
Pietra, Milano 1968
Churchill e Mussolini, di Nino d'Aroma, Centro Editoriale
Nazionale, Roma 1962
I RETROSCENA
DELLA TRAGEDIA
Intervista all'avv. Massimo Filippini,
figlio di un caduto a Cefalonia
L'avvocato Massimo Filippini, residente a Latina, ha svolto un'intensa
attività di ricerca storica sull'eccidio di Cefalonia. Ha pubblicato un libro (La
vera storia dell'eccidio di Cefalonia - edizioni CDL) e cura
l'aggiornamento di un apposito sito ( www.cefalonia.it
) che si propone di fornire la massima documentazione possibile
per una rilettura di questa terribile pagina della nostra storia.
L'avvocato Filippini non è mosso solo dalla passione di storico, ma
anche dagli affetti più profondi. Il sito è infatti dedicato "a mio
Padre, Caduto senza Croce, per colpe altrui". Il padre dell'autore era il
maggiore in servizio permanente effettivo Federico Filippini, comandante il
genio divisionale della "Acqui", uno degli ufficiali caduti nei
tragici eventi che si svolsero sull'isola greca dall'8 al 25 settembre 1943.
D: Avvocato Filippini, Lei si è proposto una revisione della
storiografia ufficiale sui fatti di Cefalonia. Su quali aspetti della vicenda si
sono dunque avuti dei travisamenti? E questi sono stati, a Suo avviso,
intenzionali?
R: Non è più un mistero che a Cefalonia, nei giorni dall'8 al 15 settembre
'43, si verificarono incredibili atti di sedizione configuranti non solo
illeciti disciplinari ma anche e soprattutto reati previsti e puniti dal codice
penale militare, ad opera di alcuni ufficiali subalterni - tenenti o capitani -
i quali aizzarono i soldati dipendenti, quasi tutti dell'artiglieria, contro il
Comando di Divisione accusato di essere, in qualche modo, complice dei tedeschi
per il solo fatto di trattare la cessione delle armi con essi, in ottemperanza
agli ordini ricevuti dal Comando di Armata di Atene.
Nella pubblicazione dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dal titolo
"Cefalonia", del 1945, si legge -in proposito- a pag.3:
"Nell'isola di Cefalonia avvennero soprattutto due fatti che il popolo
italiano ha il dovere di conoscere in tutta la loro verità.
Il primo: l'intimo dramma del generale italiano comandante delle truppe italiane
nell'isola. Il secondo: per sette giorni, parte delle truppe dell'isola sono in
rivolta contro il proprio generale"
A sua volta Il colonnello Giuseppe Moscardelli, in un libro redatto per incarico
dello stesso Ufficio, intitolato anch'esso "Cefalonia", definì tutto
ciò in modo alquanto eufemistico, (sol che si pensi all'assassinio del capitano
Piero Gazzetti, dell'ufficio comando divisione, ad opera di un invasato
maresciallo di marina "rivoltoso"), ma sufficientemente chiaro, cioè
come "una violenta crisi disciplinare fra le truppe per alti motivi
ideali"
Che si sia trattato di "rivolta" o di "crisi disciplinare",
un fatto è certo, e cioè che l'Esercito Italiano sapeva -fin dal 1945- come
erano andati i fatti e tuttavia tacque o fu costretto a farlo dal potere
politico dell'epoca, che impose il silenzio per non compromettere l'inserimento
della vicenda di Cefalonia nell'ambito della Resistenza, all'epoca egemonizzata,
più di quanto lo sia oggi, dai socialcomunisti che ne reclamavano il monopolio
agevolati in ciò dalla vile acquiescenza degli altri partiti politici.
Rispondendo alla sua domanda, si può, quindi, affermare che i travisamenti dei
fatti furono prassi costante come dimostra, ad esempio il conferimento del
Diploma di Partigiano ai militari della Divisione per cui mio Padre, da Maggiore
Comandante del Genio Divisionale venne trasformato nel "Partigiano"
Federico Filippini appartenente alla "Formazione" divisione "Acqui",
con l'"incarico" di partigiano".
Quanto alla intenzionalità delle frottole raccontate, non possono sussistere
dubbi, essendo evidente che la manipolazione degli avvenimenti si rese
necessaria per creare una ricostruzione storica "virtuale" o di comodo
che permettesse di inserire un episodio tragico ma, pur tuttavia, prettamente
militare, nell'ambito della Resistenza sviluppatasi successivamente, la quale
ebbe caratteri e connotati del tutto diversi.
D: Personalmente sono rimasto stupito leggendo, su varie fonti, di un referendum
che il generale Gandin avrebbe organizzato tra i suoi uomini. Inoltre si
legge anche di una iniziativa autonoma di alcuni ufficiali, che
avrebbero cercato di contrastare uno sbarco di rinforzi tedeschi, mentre il
generale Gandin cercava invece di guadagnare tempo. Non mi pare precisamente un
modus agendi consono alla disciplina militare: sembrerebbero eventi da soviet
dei soldati. D'altra parte nelle giornate del "dopo 8 settembre"
la mancanza di direttive chiare e univoche causò non pochi comportamenti
anomali nelle forze armate. Cosa può dirci al proposito?
R: Dei quesiti postimi, rispondo prima a quello relativo all'iniziativa
"autonoma" di alcuni ufficiali che, il mattino del 13 settembre,
ordinarono di loro iniziativa l'apertura del fuoco alle batterie da loro
comandate, contro due motozattere tedesche che stavano per attraccare nel porto
di Argostoli.
Esso rappresentò la punta dell'iceberg nella rivolta contro il generale Gandin
da parte di alcuni ufficiali inferiori, tenenti o capitani che, ergendosi ad
unici depositari dell'onore militare ed arrogandosi il diritto di sostituirsi ai
propri superiori nelle funzioni decisionali e di comando, cercarono, con tale
gesto, di dar luogo al "fatto compiuto" - come essi stessi lo
definirono - atto a far fallire le trattative che il generale Gandin, come si è
detto, stava conducendo con i tedeschi, in ottemperanza, ripeto, di ordini
ricevuti dal proprio Comando d'Armata.
Si trattò, in sostanza, di un gesto sconsiderato e inconcepibile che, tra
l'altro, non determinò affatto l'apertura delle ostilità -come si è
falsamente tramandato dai suoi autori e dai loro corifei- mentre invece "fu
deleterio per la saldezza disciplinare dei reparti" come affermò, in data
21 gennaio 1947, la terza sottocommissione accertamenti presso il Ministero
della Guerra, chiamata a pronunciarsi su di esso.
Successivamente, durante il processo svoltosi sul finire degli anni '50 contro i
predetti rivoltosi, costoro fecero passare tale "bravata" -per timore
di spiacevoli conseguenze giudiziarie- come un atto difensivo compiuto per
salvare il Comando di Divisione (!) da una potente "flotta da sbarco"
composta di due motozattere cariche di viveri e di materiale per il
distaccamento tedesco di Argostoli, e non certo di "mitragliatrici e
cannoni", come essi dichiararono al pubblico ministero ed al giudice
istruttore militari.
Che il Comando di Divisione non avesse bisogno di protezione in quanto nessun
pericolo imminente lo minacciava e che quindi i "rivoltosi", in veste
di imputati avessero detto fandonie, fu accertato dal Pubblico Ministero
Militare nella sua Requisitoria, depositata il 27 marzo 1957, ove, a pagina 60,
si legge quanto segue: "Riferisce il teste capitano Postal: "A
un certo momento dello stesso mattino del 13 ricevetti dal comandante del 33°
reggimento col.Romagnoli l'ordine da trasmettere ai comandanti di batteria di
cessare immediatamente il fuoco. Cercai di mettermi in contatto telefonico con
la prima batteria, ma non ci riuscii per un guasto al telefono (così ritengo).
Presi allora contatto telefonico col comandante della quinta batteria, ma il
tenente Ambrosini, ricevuto l'ordine, mi rispose che non accettava ordini del
Comando di Reggimento, ma solo del tenente Apollonio. Spedii allora un
motociclista con un ordine scritto per il capitano Pampaloni, comandante della
prima batteria.
Po il ten.col. Fioretti, Capo di Stato Maggiore della divisione, mi
sollecitò per una pronta esecuzione, dal momento che le batterie sparavano
ancora. Scesi allora nella via antistante il comando, dove era il pezzo della
batteria di Apollonio. Ingiunsi ad Apollonio di cessare immediatamente il fuoco
e di farlo cessare al tenente Ambrosini: l'Apollonio mi rispose che non avrebbe
cessato il fuoco prima che i tedeschi lo avessero cessato a loro volta. Infatti
le batterie semoventi tedesche avevano risposto al fuoco delle nostre batterie e
continuavano a sparare. Io replicai ad Apollonio: i tedeschi hanno ordine di
cessare il fuoco, quindi cessatelo voi, dal momento che siete stati i primi ad
aprire il fuoco, e anche i tedeschi smetteranno di sparare. Apollonio cercò di
resistere al mio ordine, quantunque gli facessi presente che veniva dal comando
di Reggimento e dal comando di Divisione.
Dopo che io gli feci presente che, se insisteva, sarebbe andato a finir
male, finalmente s'indusse ad accettare l'ordine. Poco dopo arrivò sulla stessa
via il capitano Pampaloni che protestò per l'ordine di cessare il fuoco
(evidentemente il Pampaloni era stato informato dal motociclista inviato presso
di lui). Io dissi al Pampaloni, il quale davanti ai soldati protestava ad alta
voce -dicendo che si trattava di ordine assurdo- che tali discorsi non si
dovevano fare davanti ai soldati e che solo davanti al Comando di Reggimento
egli avrebbe potuto ottenere chiarimenti. Il Pampaloni mi rispose che non
accettava ordini da me, al che io reagii un po' vivacemente. Ma alla fine il
fuoco cessò".
La suddetta testimonianza non ha bisogno di commento, essendo di per sé
sufficiente a dimostrare quale fu il "modus agendi" di detti ufficiali
-trasmesso ovviamente ai propri soldati- che, purtroppo, anziché trovare la
giusta punizione -in quanto causa oltretutto della tragedia che avvenne - fu
esaltato irresponsabilmente dai nostri governanti dell'epoca e ricompensato,
addirittura, con il conferimento di medaglie o altre benemerenze, come la
medaglia d'argento concessa all'allora capitano Pampaloni per essere stato,
"il primo ad aprire il fuoco" sui tedeschi.
Faccio notare, per inciso, che il predetto, per sua ammissione, era di idee
marxiste all'epoca dei fatti e lo è tuttora, come la sua appartenenza all'ANPI
dimostra. Chi vuol trarre conclusioni da ciò è libero di farlo.
Quanto al cosiddetto "referendum" che il generale Gandin avrebbe
indetto (!) tra i soldati per decidere il da fare, esso è forse la più
colossale montatura, tra le tante avutesi sui fatti di Cefalonia, che è
necessario smascherare non essendo più lecito, soprattutto sul piano morale
prima che su quello storico, che si continui a perpetuare una menzogna di tal
genere.
Tutto ebbe inizio con l'arrivo, nella notte del 13 settembre, del tele, inviato
dal Comando Supremo italiano postosi in salvo a Brindisi, dopo la vergognosa
"fuga di Pescara" del re e del suo seguito, contenente l'ordine di
resistere ai tedeschi, di cui gli storici "resistenzialisti" e gli
"utili idioti" che li circondano, sono restii a parlare, per paura
che, una volta reso di pubblico dominio, esso faccia crollare miseramente il
castello di frottole costruito sulla cosiddetta "unanime volontà",
della Divisione "Acqui" di combattere contro i tedeschi.
A tale ordine che, per buona memoria riportiamo...
(" N.1029/CS (Comando Supremo) alt Comunicate at generale Gandin
che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo at Cefalonia,
Corfù et altre isole alt Firmato. Francesco Rossi Sottocapo di Stato
Maggiore"),
...il generale Gandin da soldato ligio agli ordini dei propri superiori, si
adeguò, anche se in cuor suo giustamente preoccupato per le tragiche
conseguenze che ne sarebbero derivate e che, in effetti, si verificarono. Famosa
fu la sua frase rivelatasi, purtroppo, profetica: Se perdiamo ci
fucileranno tutti, pronunciata evidentemente sulla base della sua
profonda conoscenza dei tedeschi che non avrebbero certo lasciato passar liscio
un rovesciamento così repentino e proditorio di alleanza da parte nostra.
Ciò premesso diciamo subito che il generale Gandin non ordinò alcun
referendum, ma rivolgendo la sua preoccupata attenzione su ciò che
sarebbero state in grado di fare le truppe ai suoi ordini, che egli ben
conosceva, reiterò i forti dubbi, già espressi in precedenza, sulle capacità
di resistenza della fanteria -a massa infinitamente più numerosa dei soldati-
ai previsti attacchi aerei che non sarebbero certo mancati e che, come egli
aveva lucidamente previsto, furono l'arma vincente dei tedeschi.
Non era un mistero, d'altronde, che i due reggimenti di fanteria male armati e,
praticamente indifesi contro eventuali minacce aeree, fossero, in maggioranza,
poco propensi al combattimento a cominciare proprio dai loro ufficiali
Superiori, generale Gherzi, col.Ricci e ten.col. Cessari pronunciatisi, in sede
di Consiglio di Guerra convocato -per ben due volte- dal generale Gandin,
favorevoli alla cessione delle artiglierie e delle armi pesanti ai tedeschi.
Lo stesso capitano Pampaloni, fece una dichiarazione assai esplicita, riportata
dal col. Moscardelli nel suo libro, a pag.54, riferendosi all'accordo che la
sera del 12 stava per essere raggiunto con i tedeschi: "Il colonnello
Romagnoli (suo superiore diretto) insistette per convincermi (a cessare dal suo
atteggiamento oltranzista) dato che non tutti gli Italiani erano decisi
ad una azione energica, ed aggiunse: "Infatti nella
nottata stessa mi recai in autocarretta al comando di reggimento, al comando di
divisione, ai comandi dei tre battaglioni di fanteria, mi incontrai con molti
ufficiali e mi resi conto che la maggioranza accettava questa decisione (di
cedere cioè le armi).
Quanto sopra è la più autorevole smentita, anche per la provenienza dal
Pampaloni, di tutte le falsità e le menzogne raccontate in oltre mezzo secolo
sul preteso "referendum" in cui, all'unanimità,
Ufficiali e soldati, avrebbero deciso di combattere contro i tedeschi pur nella
consapevolezza di un esito finale infausto.
"Non abbiamo un solo aereo a nostra disposizione. I tedeschi potranno
scaraventare sull'isola le loro squadriglie di aerei Stukas. Dalla loro
micidiale offensiva aerea io non potrò difendere i miei uomini. Le fanterie,
soprattutto, che dovranno scattare all'attacco, manterranno saldo il loro
morale? Resisteranno a lungo mentre si vedranno falciare indifese dai
bombardamenti aerei?" Questi, nel racconto di Padre Romualdo Formato
furono i dubbi che attanagliarono l'animo di Gandin fino all'ultimo, per cui è
lecito ritenere che con il presunto "referendum" egli abbia voluto
tastare il polso della truppa prima di rispondere in modo definitivo alle
richieste di cessione delle armi avanzate dai tedeschi. E' ovviamente da
escludere che il parere di una parte dei soldati - quelli cioè che poterono
darlo - abbia influito sulla decisione che egli aveva in animo di prendere,
essendo fuor di dubbio la sua obbedienza all'ordine ricevuto da Brindisi.
Come detto, i soldati, interpellati in un lasso di tempo brevissimo e senza
alcuna regola che consentisse loro di esprimersi a ragion veduta, non furono
tutti, ma solo una minoranza, costituita soprattutto dai reparti
dell'artiglieria, che si agitavano ab initio per la lotta e che la facevano
ormai da padroni, agevolati dal fatto di essere concentrati intorno alla
capitale Argostoli, sede del comando divisionale, né risulta che la fanteria
abbia espresso -nella sua totalità- alcun parere. Nessuno ha mai scritto,
inoltre, come si sia svolta questa consultazione che, dal punto di vista
militare, era assurda e fuori di ogni regola, ma pareva nascere esclusivamente
dal tumulto militare.
La mattina del 14 si disse che il cento per cento dei soldati avevano votato
contro i tedeschi. Il fatto non sembra credibile, non solo perché non
si sa quale fu la procedura seguita e se tutti furono interpellati, ma anche
perché vi erano alti ufficiali, come i tenenti colonnelli Uggè e Sebastiani,
che volevano passare con i tedeschi, oltre ai comandanti dei reggimenti di
fanteria e del genio che si erano espressi -in ben due Consigli di guerra
indetti in precedenza dal generale Gandin- in favore della cessione delle armi.
Sembra impossibile, oltre che assurdo, che costoro non avessero seguaci, e ciò
porta a ritenere, ragionevolmente, che quelle che Lei, con molta aderenza alla
realtà, definisce manifestazioni di "sovietismo" non siano state del
tutto spontanee né totalitarie, ma soltanto imposte, con metodi di stampo
bolscevico, alla maggioranza delle truppe da una minoranza di forsennati, resi
tali oltre che dai vaneggiamenti di alcuni loro superiori diretti anche dalla
propaganda greca che in quei giorni ebbe interesse ad aizzare i nostri soldati
contro i tedeschi, fermo restando che, come gli eventi successivi dimostrarono,
in particolare con l'annientamento della divisione "Pinerolo" ad opera
loro -sul continente greco- per essi, sia italiani che tedeschi, rimasero
acerrimi nemici da combattere.
D: Avvocato, i combattimenti a Cefalonia durarono dal 15 al 22 settembre
'43. In questo lasso di tempo cosa venne fatto da parte del governo italiano
(ammesso che in quel momento esistesse un governo italiano... ) per venire in
soccorso della Divisione Acqui? O non venne fatto nulla?
R. L'eccidio di Cefalonia fu la risultante di una serie di circostanze
combinatesi tra loro in modo tale che il tragico epilogo ne sembrò,
addirittura, la conclusione più logica.
Tutto congiurò a tal fine: dal silenzio radio sceso sull'isola, alla propaganda
greca che sconvolse le menti e fece venir meno la disciplina; dalla rivolta
degli artiglieri capeggiati da giovani ufficiali, ardimentosi ma irresponsabili,
alla eccessiva tolleranza del generale Gandin verso costoro che, a conti fatti,
risultò fatale.
Quanto sopra dette luogo ad una azione "nella quale -come ben disse lo
storico Attilio Tamaro- gli inferiori avevano comandato ed i superiori
obbedito".
A ciò è da aggiungere -e con questo rispondo alla domanda- la spaventosa
responsabilità di Badoglio e del Comando Supremo che fuggirono lasciando le
truppe, in patria ed oltremare, in balìa di sé stesse, unitamente a quella dei
nuovi "alleati" che non vollero aiutare la "Acqui" durante
la disperata lotta con i tedeschi e si avrà il quadro completo della
situazione.
Le responsabilità del gruppo badogliano, in particolare, lungi dall'esaurirsi
nell'ambiguo testo dell'armistizio, culminarono nel criminoso radiogramma con
cui il Comando Supremo -a fuga ultimata- emise l'ordine di resistere "manu
militari" ai tedeschi nella notte del 13 settembre. Esso mutò radicalmente
la situazione, poiché Gandin non potè più far nulla per salvare il salvabile,
ma dovette obbedire.
Il Comando Supremo spinse così al suicidio la divisione - complice l'attività
ritardatrice dei rivoltosi - ben sapendo che non avrebbe potuto mandarle alcun
aiuto e che gli Alleati l'avrebbero lasciata perire; "al governo
badogliano - scrisse il Tamaro - occorreva che si combattesse a qualunque
costo, occorrevano anche quei morti per tentare di forzare il riconoscimento da
parte degli Alleati e per giocare quella carta insanguinata a favore della
vanamente invocata alleanza".
La criminosità di tale ordine trovò conferma, tra l'altro, nella risposta che
il Comando Supremo fornì alle disperate richieste di Gandin, che esso aveva
gettato allo sbaraglio, il cui tenore fu il seguente: "Impossibilità
invio aiuti richiesti alt Infliggete nemico più gravi perdite possibili alt
Ogni vostro sacrificio sarà ricompensato alt Ambrosio". Niente aiuti,
dunque, ma soltanto promesse a soldati mandati a morire inutilmente.
Nella Marina, a onor del vero, un tentativo fu fatto dall'ammiraglio Galati che,
impressionato dai drammatici appelli, propose al ministro De Courten di agire ad
insaputa degli Inglesi e, ottenuta l'autorizzazione, partì da Brindisi alla
volta di Cefalonia, al comando di due torpediniere cariche di viveri, medicinali
e munizioni.
Dopo poco lo raggiunse un radiogramma che gli ingiunse di rientrare alla base
immediatamente: L'Alto Commissario Alleato, il generale inglese Mac Farlane
aveva imposto tale ordine e il ministro aveva ceduto.
Con tale scellerato atto anche gli Alleati si conquistarono, dunque, la loro
bella fetta di responsabilità nella tragedia che si stava consumando a
Cefalonia.
In tale coacervo di responsabilità, comunque, la più grave, che pesò come un
macigno sul gruppo badogliano, fu quella di non avere dichiarato guerra alla
Germania, con tutte le nefaste conseguenze che seguirono e che scandalizzarono
gli stessi Alleati.
Il 29 settembre, infatti, durante la conferenza svoltasi a Malta tra il generale
Eisenhower ed i membri del governo Badoglio avvenne il seguente colloquio:
EISENHOWER: "Desidero sapere se il governo italiano è a conoscenza
delle condizioni fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo intervallo
di tempo in cui l'Italia combatte la Germania senza averle dichiarato
guerra".
AMBROSIO: "Sono sicuro che i tedeschi li considerano partigiani".
EISENHOWER: "Quindi passibili di fucilazione?".
BADOGLIO: "Senza dubbio".
EISENHOWER: "Dal punto di vista alleato la situazione può anche restare
com'è attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire
combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l'Italia dichiarare la
guerra".
Dunque gli Alleati e, soprattutto, i badogliani sapevano qual'era la sorte degli
italiani mandati al combattimento! Badoglio, anzi, era certo che gli stessi
erano passibili di fucilazione, ma ciò non gli impedì di inviare il drastico
ordine di combattere che costò la vita a circa diecimila uomini morti in una "lotta
pazzesca e inutile" come, con molta aderenza alla realtà, il
Maresciallo Alexander e l'Ammiraglio Cunningham definirono quanto avvenne a
Cefalonia.
Concludendo mi sembra logico rilevare, alla luce di quanto sopra, la
pretestuosità della tesi, sostenuta dalla storiografia ufficiale, che ha sempre
puntato il dito accusatore soltanto verso i tedeschi, quali unici responsabili
dell'eccidio di Cefalonia, omettendo di precisare -per inconfessabili motivi-
che costoro recitarono la parte -a loro congeniale- di carnefici, sempre e
soltanto a seguito di azioni la cui responsabilità ricadde su altri.
D: Lei è certo a conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dal senatore a vita
Taviani, secondo il quale nel 1956 il ministro degli Esteri Gaetano Martino
(PLI) si adoperò presso il ministro della Difesa (carica ricoperta appunto da
Taviani) per insabbiare gli atti istruttori che avrebbero potuto portare
all'incriminazione di diversi ufficiali tedeschi responsabili della strage di
Cefalonia. La motivazione politica di questa ingerenza era la necessità di non
gettare discredito sul ricostituito esercito tedesco (del quale facevano parte
alcuni di quegli ufficiali), che rappresentava uno dei cardini principali del
dispositivo di difesa contro la minaccia comunista. Lei cosa può dirci al
proposito?
R: Il presunto insabbiamento della strage di Cefalonia -da parte di Taviani e
Martino- è stato montato ad arte dai signori della sinistra nostrana, i quali
attraverso la scoperta del "nulla", hanno tentato di inserirsi a pieno
titolo nella "querelle" relativa alla collocazione storico-ideologica
della vicenda, non avendo digerito l'insuccesso delle loro ricorrenti manovre
intese ad annoverare acriticamente la stessa nell'ambito di quella parte della
Resistenza a loro congeniale, quella, per intenderci, color rosso sangue.
Avvalendosi, quindi, della collaborazione dei numerosi "utili idioti"
circolanti in Italia e inconsciamente al loro servizio, essi sono riusciti a far
credere che il procedimento giudiziario contro alcuni militari tedeschi ritenuti
responsabili degli efferati eccidi commessi a Cefalonia, sia stato insabbiato,
nel '57, dalla nostra Magistratura Militare per l'intervento del ministro della
Difesa dell'epoca Taviani in combutta con quello degli Esteri Martino,
Indubbiamente, da parte di questi due personaggi vi fu una volontà politica
comune mirante ad evitare che inchieste giudiziarie sui fatti di Cefalonia,
potessero danneggiare l'immagine che la Germania democratica stava faticosamente
cercando di darsi, ed in questo consiste la "scoperta" del giornalista
Giustolisi, nell'aver visionato cioè una lettera di Martino sostenente tale
necessità sulla quale Taviani scrisse in calce "concordo pienamente con il
ministro Martino".
Tale concordanza di vedute e di aspirazioni , vergognosa soprattutto in Taviani,
Presidente della FVL che raggruppa tutte le Associazioni Combattentistiche e,
soprattutto, Partigiane(!), rimase però allo stato embrionale, non avendo
potuto influire sul funzionamento della Magistratura Militare, che, proprio per
la sua indipendenza da qualsiasi altro potere dello stato, si attivò a seguito
delle denunce di un magistrato, padre di un Caduto, il quale riuscì a far
rinviare a giudizio 27 imputati italiani, tra cui i principali furono il
Pampaloni e l'Apollonio, e 30 militari tedeschi.
Naturalmente i reati loro ascritti erano diversi ma, per ragioni di connessione
oggettiva ad essi venne assegnato lo stesso giudice, il Tribunale Militare di
Roma, che svolse l'istruttoria relativa a quelli italiani mentre per quelli
tedeschi si ebbero difficoltà oggettive derivanti dall'assenza di accordi
bilaterali che permettessero non solo l'eventuale estradizione degli imputati ma
addirittura non consentivano la richiesta delle complete generalità data
l'improponibilità della richiesta di estradizione.
Per chi volesse saperne di più rammento che tutta la vicenda riguardante detto
processo è ampiamente riportata e documentata nel mio libro cui, ovviamente,
rimando il lettore.
Concludo ribadendo, se ve ne fosse ancora bisogno, che la questione
dell'insabbiamento ripresa dalla stampa "sinistreggiante" è un falso
scoop destinato ancora una volta a fuorviare l'opinione pubblica fornendo ad
essa, come autentica, una "realtà virtuale" esistente soltanto nella
mente insana di chi la concepì.
D: Il Suo libro, ed ora il Suo sito (
www.cefalonia.it
), che tipo di risposta hanno avuto, e da chi in particolare?
R: Il mio libro, ancorché pubblicato da un modesto editore e distribuito quasi
esclusivamente attraverso il metodo del "passa parola" ha avuto
un'accoglienza entusiastica, man mano che se ne è diffusa l'esistenza,
soprattutto fra gli appassionati non della storia ma "della verità
storica" ivi compresi i congiunti dei Caduti che me ne hanno fatto gran
richiesta accompagnata da lodi ed apprezzamenti, soprattutto per aver saputo
"finalmente la verità".
Aggiungo che il mio piacere più grande è quello di aver inferto un colpo
mortale ai falsificatori della storia che albergano e vivono di rendita, da
decenni, nel culturame politico-ideologico della sinistra.
Quanto al mio sito esso è andato ad aggiungersi al successo del libro e sono
certo che, anche per le migliorate condizioni politiche che - grazie a Dio - si
preannunciano, avrà il successo che la Verità dei fatti ed i Martiri di
Cefalonia reclamano da lunghissimi anni".
______________________
Ringrazio l'avvocato Filippini per la Sua cortese disponibilità. Voglio
tuttavia precisare che, pur apprezzando il contributo dato dalla sua intervista
alla conoscenza dei fatti di Cefalonia, non posso condividere, pur pubblicandole
per rispetto alla libertà di pensiero, determinate espressioni che esprimono
spirito di parte. La verità storica non abita né a destra, né al centro, né
a sinistra; e va ricordato che il falso storico può essere costruito a destra,
al centro ed a sinistra. La precisazione è dovuta ai lettori di STORIA in
network poiché essi ci apprezzano, e ci seguono da cinque anni, proprio per lo
sforzo continuo di leggere la storia senza preconcetti, mettendoci al di sopra
della passione politica che ognuno di noi ha (e deve avere), accettando solo la
verità, rigorosamente provata, da qualsiasi parte venga.
il direttore
Ringrazio
per l'articolo
FRANCO GIANOLA,
direttore di
STORIA IN NETWORK
Dal sito: http://www.cronologia.it/storia/a1943i.htm
Il sacriuficio della Divisione Acqui. Milano 20.09.2000
Intervento di Amos Pampaloni
combattente di Cefalonia e comandante del 33° Artiglieria.
Prima di tutto rivolgo un pensiero commosso ai caduti della Divisione di Fanteria da montagna Acqui, i quali, costretti da un governo dittatoriale alleato dei nazisti a combattere per oltre tre anni contro popoli che per cultura e tradizione erano amici, non vollero per spirito patriottico cedere le armi ai tedeschi e furono i primi eroi combattenti per la libertà, dando inizio alla Resistenza italiana.
La responsabilità delle stragi di Cefalonia e Corfù ordinate da Hitler, sono dei comandi militari alleati e del governo Badoglio. Infatti l'articolo 8 delle dodici condizioni dell’armistizio dettate dal generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze armate alleate, imponeva al governo italiano di richiamare in Italia tutte le Forze armate italiane in qualunque zona in cui si trovavano. Inoltre il generale Smith, capo di Stato Maggiore delle Forze armate nel Mediterraneo, affermò che le truppe italiane dislocate nei Balcani potevano essere trasportate in Italia anche con mezzi navali alleati, e reso noto il generale Smith che il presidente Roosevelt e il ministro Churchill avevano redatto un importante documento allegato alle condizioni di armistizio e che fra l'altro affermava testualmente quanto dico: "le Nazioni Unite dichiarano senza riserve che ovunque le forze italiane combatteranno i tedeschi o distruggeranno proprietà tedesche od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile delle forze delle Nazioni Unite; nel frattempo, se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nei limiti del possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche".
Ma, nonostante queste belle parole, gli inglesi e gli americani si disinteressarono completamente della resistenza della Divisione Acqui e non fu inviato un solo aeroplano per contrastare gli Stukas che a 30, 40 per volta bombardavano dalla mattina alla notte non solo gli obiettivi militari ma anche quelli civili e non sono mai stati bombardati i convogli marittimi tedeschi che dalla Grecia portavano continuamente nelle isole uomini ed armi. Infine il governo Badoglio ritardando fino al 10 ottobre la dichiarazione di guerra alla Germania ha abbandonato i militari italiani che nel settembre combattevano contro i tedeschi lasciandoli praticamente in una posizione di irregolarità. Questo non giustifica la strage fatta dai tedeschi.
Permettetemi di esprimere stupore e dolore nell'avere appreso che due ministri della Repubblica italiana hanno negato per opportunità politica ad un procuratore militare di chiedere l'estradizione od almeno le complete generalità di trenta ufficiali tedeschi ritenuti responsabili degli "incidenti" - come li chiama uno dei due ministri - di Cefalonia e Corfù. E queste lettere sono state archiviate provvisoriamente - archiviate provvisoriamente - per oltre 50 anni nella Procura Generale Militare insieme a 695 fascicoli di crimini nazifascisti fra i quali 15 fucilati in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944.
Nel settembre '43 ero capitano d'artiglieria comandante la 1° batteria del 33° Reggimento. Oggi novantenne insieme agli altri combattenti sopravvissuti dedico le mie residue energie per trasmettere alle nuove generazioni la cultura della pace, della giustizia, della solidarietà per auspicare la riforma democratica dell'organizzazione delle Nazioni Unite, in modo che abbia questa organizzazione la capacità di impedire la guerra, la fabbricazione ed il commercio delle armi da guerra e risolvere senza violenza, senza bombardamenti, col dialogo, diplomaticamente, le inevitabili crisi politiche, etniche, religiose, economiche e sociali che sorgono fra i popoli.
La Divisione Acqui ha iniziato la guerra di Liberazione, ma le Forze Armate hanno partecipato alla Resistenza oltre che in Grecia, anche in Albania, in Jugoslavia, in Francia, in Italia col Corpo Italiano di Liberazione, con i gruppi di combattimento, con i militati di professione e di leva, nelle file partigiane. La Resistenza è stata fatta anche dalle Brigate partigiane, ma non solo. Non è retorica affermare che la Resistenza è stata fatta da tutto il popolo italiano, dal nord al sud, come testimoniano le numerose ricompense al Valore Militare concesse ai civili, ai paesi, alle città, alle province, alle regioni, per consacrare l'eroismo delle popolazioni italiane, per consacrare la loro generosità e tenacia attorno ai combattenti, aiutandoli con abnegazione incitandoli, subendo le feroci rappresaglie del nemico con distruzioni, con deportazioni, con sanguinose repressioni.
Se facciamo una analisi storica del periodo fra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si può affermare che per l'Italia è stato un secondo Risorgimento per la resistenza al nemico invasore, per la riconferma dell’unità della nazione, per la rifondazione della Patria, la premessa della Costituzione, e la premessa della democrazia..
Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_pampaloni.htm
Il sacrificio della Divisione
Acqui, Milano 20.09.2000
Intervento di
Alfredo Cascone
presidente del
comitato milanese della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e
partigiane.
Innanzitutto desidero portare il mio più riverente saluto alla Medaglia d’oro al V.M. Vincenzo Capelli, alla Medaglia d’oro al V.M. Alberto Li Gobbi, alla Medaglia d’oro al V.M. Giovanni Pesce; grazie per essere qui con noi. Mi è particolarmente gradito il compito di portare a voi il mio riconoscente grazie anche a nome di tutta la presidenza della Confederazione milanese per la vostra sensibilità verso una sciagurata pagina della nostra storia, quella dell'eccidio dei componenti la Divisione Acqui.
Il mio omaggio e la mia gratitudine vanno in modo particolare ai reduci ed ai familiari di quella triste pagina della storia del nostro esercito che sono qui presenti, con la preghiera che essi portino i nostri sentimenti di infinita solidarietà a tutti i loro commilitoni ed in particolare domani al raduno di Verona alla presenza del nostro presidente della Repubblica.
Sono in serie difficoltà ed è con infinita commozione che mi trovo ad affrontare un argomento tanto delicato come il ricordo dei nostri caduti assassinati, solamente per vendetta, nell'isola di Cefalonia nel settembre del 1943.
57 anni fa si è compiuto il peggiore atto barbarico che un esercito invasore, senza onore, possa compiere. Se ancora si vuol sottolineare il senso della barbaria tedesca, il suo comando proibiva la sepoltura dei nostri soldati fucilati perché "i ribelli non hanno diritto alla sepoltura".
Va ricordato che il contingente italiano si aggirava su 11.500 fra sottufficiali e truppe, con 525 ufficiali. Il gen.Gandin comandava la Divisione Acqui e il ten.col. Barge il contingente tedesco.
Le contraddizioni degli ordini del gen. Vecchiarelli destarono serie perplessità nel Gen.Gandin. Il giorno 10 Settembre si presentava al comando di divisione il ten.col.Barge e chiedeva l’immediata cessione delle armi, comprese quelle individuali, imponendo il termine massimo: le ore 10 dell’11 settembre.
Con arroganza degna del peggior nazista impose che la consegna delle armi comprese quelle personali, avvenisse nella Piazza principale di Argostogli alla presenza della popolazione.
Ricordo a tutti voi questo vile metodo di umiliare il nostro esercito perché questo atto determinò la strage. Infatti dopo tristi vicissitudini il gen. Gandin prese la decisione, per la prima volta negli eserciti italiani, di invitare le truppe ad esprimere il proprio parere sui seguenti 3 punti prima di procedere di fronte a Dio e gli uomini:
1- contro i tedeschi
2- insieme ai tedeschi
3- cessione delle armi.
La risposta è stata plebiscitaria: contro i tedeschi.
Dello stesso parere erano la maggior parte dei giovani ufficiali. I tedeschi, infrangendo lo "status quo" conseguente alle trattative in corso, attuarono numerosi spostamenti di truppe facendo altresì affluire rinforzi dal continente. Ma la Acqui era ben decisa a non lasciarsi sopraffare. A rafforzare questa situazione contribuiva la solidarietà del popolo greco che si univa spiritualmente al soldato italiano, compreso gli ufficiali dell'esercito popolare greco di liberazione che operava sulle montagne i quali si presentavano ai nostri comandi chiedendo armi e offrendo generosamente la loro collaborazione.
A confermare il risultato del plebiscito giunse il cifrato a firma del gen. Francesco Rossi che ordinava di resistere alle richieste tedesche. Alle ore 12 il comando di Divisione consegna in Argostoli al comando tedesco il seguente messaggio: "La Divisione Acqui non cede le armi".
La battaglia impari per forza e mezzi durò dalle ore 14 del 15 settembre alle ore 16 del 21 settembre.
Amici, da qui comincia l'odissea della Divisione Acqui.
La sera del 21 settembre e l'alba del 22 l'intera Divisione veniva decimata e il gen. Gandin convocò per l’ultima volta il Consiglio di Guerra, il quale decise di richiedere la resa senza condizioni.
La riunione per la resa durava circa due ore, quindi gli ufficiali del comando divisione deposero sul tavolo le loro pistole di ordinanza diventando da quel momento prigionieri di guerra. Nonostante la bandiera bianca di resa issata sul comando tattico, non finiva la fucilazione dei reparti che deponevano le armi.
Alle ore 16 del 22 settembre la battaglia di Cefalonia era finita, ma le fucilazioni continuavano per tutta la giornata del 23 settembre durante i rastrellamenti effettuati dai tedeschi. Dopo le esecuzioni sommarie in massa sul campo di battaglia nel corso delle quali avevano incontrato la morte 155 ufficiali e 4.750 uomini di truppa, sembrava che l’impeto di bestiale ferocia sanguinaria fosse giunto al suo epilogo. Purtroppo invece tra il 23 e il 28 settembre i tedeschi massacrarono altri 5.000 uomini di truppa e 129 ufficiali, compreso il gen.Gandin. I rimanenti 163 ufficiali accantonati presso la palazzina dell'ex comando Marina e all'ex caserma Mussolini venivano caricati su autocarrette e trasferite a punto San Teodoro nella famigerata casetta rossa e dopo un sommario processo venivano avviati al supplizio a 4 per volta.
Compiuto l'orrendo crimine bisognava far scomparire le tracce: ad eccezione di alcune salme lasciate insepolte gettate in cisterne artificiali, la maggior parte vengono bruciate in una fossa comune e i resti buttati in mare.
Secondo i più recenti accertamenti (non facili) le perdite complessive della divisione Acqui e della Marina ammontano a 390 ufficiali su 525 e a 9.500 uomini di truppa su 11.500.
Pertanto gli scampati, cioè i superstiti, erano 135 ufficiali e circa 2000 uomini di truppa, la maggior parte deportati in Germania e poi in Russia da dove una parte non è più tornata.
A ricordo della Divisione Acqui è stato eretto un monumento a Cefalonia, città nella quale il 21 settembre di ogni anno viene commemorato l’eccidio alla presenza di autorità militari. Il giorno 28 di questo mese con una delegazione porteremo una corona d’alloro e ci inchineremo al monumento che rappresenta tutti i martiri.
Di fronte a questo orrendo delitto perperato dai servi di Hitler viene spontanea una riflessione: ma i responsabili di questo eccidio sono stati puniti? Sin dal 1956 furono individuati dal P.M. militare i 30 ufficiali tedeschi ai quali ricadeva la responsabilità del massacro. Ebbene ragioni di politica estera consigliarono al nostro governo di allora di soprassedere alle richieste di estradizione delle 30 belve assassine.
Non voglio entrare nelle ragioni di opportunità di questo comportamento, sta di fatto che 9.890 nostri compatrioti sono stati barbaramente assassinati senza che i loro carnefici abbiano subito la giusta punizione.
La vicenda assume un enorme significato morale. Cosa potrebbero pensare i nostri figli, i nostri nipoti di fronte alla possibilità di dovere ubbidire al richiamo della Patria se questa Patria poi, per opportunità politica, non ti protegge e non punisce chi si macchia di orrendi delitti come quello di Cefalonia?
Sono assolutamente convinto che il governo di allora abbia agito per la pacificazione dei popoli, e per ragioni superiori. Evidentemente il momento non concedeva altra possibilità, ma ricordiamoci che gli Ebrei sono tuttora alla caccia dei carnefici nazisti, mentre i nostri 9.890 compagni di guerra assassinati sono tuttora in attesa che giustizia sia fatta. Inchiniamoci quindi di fronte a questi nostri eroi che dopo aver scelto spontaneamente da che parte stare e aver rifiutato, sempre spontaneamente, di non cedere le armi con disonore hanno dato dignità al nostro Paese sacrificando la loro vita.
Ebbene di fronte a questa infinita commozione io mi inchino verso questi nostri eroi caduti in nome della Patria, che non hanno avuto giustizia. Cerchiamo di ricordarli almeno noi che la guerra l’abbiamo fatta perché qualcuno ce l’ha imposta.
Mi associo al presidente Marco Pazzini che ha aperto i lavori di questa assemblea, ed esprimo a nome del presidente nazionale della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane, promotrice di questo incontro sen. Gerardo Agostini, e di Alfredo Cascone, presidente del Comitato milanese, un sentito ringraziamento alle autorità civili e militari che hanno voluto sottolineare con la loro presenza una doverosa riconoscenza ai caduti della Divisione Acqui, protagonisti di una pagina di storia nella gloriosa e tragica vicenda che nel settembre 1943 vide l'eroica resistenza dei soldati italiani alle forze armate tedesche.
Il nostro saluto commosso va ai sopravvissuti e ai familiari dei caduti.
Ai sindaci che hanno voluto essere presenti con i loro gonfaloni decorati al V.M. che simboleggiano le gesta eroiche e il sacrificio anche della vita dei loro concittadini per una Italia libera e democratica e per il riscatto della nazione dopo la lunga notte del fascismo.
Il nostro saluto al prefetto Bruno Ferrante, al sindaco Gabriele Albertini, al generale Luciano Forlani comandante del presidio militare, al questore Giovanni Finazzo, all'assessore Regionale preposto alla Cultura Ettore Albertoni, al presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, alle M.O. al V.M. Vincenzo Capelli, gen. Alberto Li Gobbi e Giovanni Pesce; a tutti coloro che hanno voluto sottolineare con la partecipazione dei medaglieri, dei labari e delle bandiere delle associazioni combattentistiche e d'arma, delle associazioni dei partigiani e dei deportati, la loro significativa presenza.
Ci ritroviamo oggi per rendere omaggio alla memoria dei combattenti di Cefalonia e per ricordare agli immemori che alla data dell’8 settembre 1943 le truppe italiane occupavano parte della Francia, la Jugoslavia, l'Albania, la Grecia, le Isole dell'Egeo e la Corsica. Era questo l'immenso arco lungo il quale era disseminato l'esercito italiano nel momento più tragico della nostra storia nazionale, in un intricato groviglio di avvenimenti, quando, venuta meno una direttiva generale di difesa, si svolse il dramma delle nostre Forze Armate all'estero, prese avvio la Resistenza e diverse unità italiane attaccarono e si batterono anche per riabilitare il nome dell'Italia dinanzi agli occhi degli altri popoli.
È pur vero che in diverse località vi fu la resistenza disperatamente chiusa in se stessa, senza possibilità di sviluppo, che lasciò solo l'eredità del sacrificio, ma vi fu anche quella destinata a prolungarsi nel tempo, ossia vi fu il susseguirsi su una scacchiera così vasta di situazioni diverse, di fatti, che costituirono le radici della identità della nazione italiana e della coscienza democratica che si andava sempre più risvegliando.
Chi ha vissuto o conosce quelle pagine di storia sa che vi furono anche eventi che portarono i militari italiani ad unirsi e ad essere inquadrati nelle formazioni partigiane dei diversi paesi, sconfiggendo lo smarrimento, ritrovando la fierezza della loro italianità, divenendo, da reparti di occupazione, combattenti della libertà ed ambasciatori di pace.
Il prezzo pagato fu proporzionato alla nobiltà dell'impresa: oltre 35.000 soldati italiani, volontari per la libertà dei popoli, caddero sul campo.
Quei nostri morti restituirono onore e dignità al nome dell’Italia all’estero e coloro che sopravvissero agli aspri combattimenti delle prime settimane successive all’armistizio, alle orrende stragi e alle deportazioni, presero in mano la bandiera della libertà e continuarono fino in fondo la lotta. Ciò avveniva mentre entro i confini nazionali, militari e operai, studenti e intellettuali, sceglievano la strada della lotta e della montagna, ed altri si organizzavano nelle città ove si costituivano i primi nuclei di gappisti e sappisti. ,
Ed ancora vi fu la vicenda dei 600.000 internati militari nei lager tedeschi. Forse il termine "internato" non suggerisce alle giovani generazioni particolari immagini di valore. Vi è chi lo vede come una specie di limbo, pallido e squallido, e non riesce a capire quali meriti possa rivendicare dalla storia. Ma è sufficiente ricostruire gli accadimenti, le umiliazioni subite dai militari che, trovatisi sbandati, furono catturati dai tedeschi, avviati alla deportazione ove conobbero il dramma dell'internamento nei lager, senza poter avere, per il loro status, la possibilità di invocare l'applicazione delle garanzie giuridiche internazionali.
Si deve conoscere il dramma degli internati, come affrontarono le condizioni di vita più avvilenti per un essere umano, come e quali sacrifici sopportarono nei lager ove oltre 50.000 italiani lasciarono la loro giovane vita. Vi furono le Unità italiane del risorto esercito che dalla disperata e sanguinosa battaglia di Montelungo alla Linea Gotica, avanzarono, combattendo verso il Po e le città del Centro-Nord. Erano il simbolo dell’Italia che risorgeva con il suo popolo, con le sue nuove e diplomatiche Istituzioni, era la testimonianza che la libertà non veniva regalata ma conquistata con grande sacrificio dai suoi combattenti per la Libertà e dai giovani soldati del rinato esercito italiano.
Avanzavano combattendo e con il Tricolore levato, ripulito dall'onta e dalla vergogna del fascismo, a dimostrazione anche per gli alleati che la libertà non ci veniva regalata ma conquistata con enorme sacrificio di sangue.
È in ispecie nella tragica vicenda della Divisione Acqui che si ritrova sintetizzato il dramma dei militari italiani dislocati all'estero nel momento dell'armistizio, d è questo il motivo e la ragione per cui siamo qui riuniti. Ciò in quanto quello di Cefalonia fu un episodio che si staccò da ogni altro per il profondo significato, che ebbe la straordinaria volontà di rivolta che contemporaneamente infiammò l'animo di migliaia di uomini e che fu tanto forte da avere ragione d'ogni elementare istinto di conservazione.
Un eroico furore dominò tutta l'epopea di Cefalonia ed elevò il sacrificio della Divisione Acqui sul piano della leggenda. Ma sarebbe davvero sbagliato fare di questa storia scritta da una Divisione di soldati un fatto puramente passionale, come alcune volte si è tentato di fare. Io ritengo che proprio dalla epopea di Cefalonia emerga che sempre, ma in specie in guerra, il soldato è solo in parte quello che i regolamenti e l’addestramento vorrebbero: sotto la divisa rimane l’uomo che con la sua infinita problematica ed insopprimibili aspirazioni, con le sue grandi o piccole idealità.
È certo che, al di là di ogni meschina speculazione, Cefalonia rimane l'episodio più tragico e più fulgido di tutta la Resistenza italiana all'estero, e testimoniò all'Italia e al mondo la volontà di riscossa che animava i nostri soldati. A Cefalonia morirono 9.000 soldati italiani e le loro ossa furono abbandonate insepolte nell'isola perché, come si espresse all'epoca il comando della Wermacht: "I ribelli italiani non meritano sepoltura". Sarà solo la pietà dei greci che, più tardi, radunerà quelle spoglie in primitivi tumuli.
Ed allora abbiamo tutti il dovere, al di là di ogni calcolo o furbizia politica, di ogni convenienza e opportunità, identificata anche nella Realpolitik, come purtroppo è avvenuto, di attuare le necessarie iniziative affinché i caduti della Divisione Acqui ed i superstiti abbiano sotto ogni aspetto la giusta e imperitura gratitudine e l'omaggio della nazione e degli italiani.
Nel concludere vorrei rivolgermi alle giovani generazioni ed in ispecie ai giovani militari, per dire loro che non è cosa meschina ma alta e nobile tramandare gli accadimenti che investono la storia patria ed impedire così che la memoria collettiva vada dispersa nel deserto della storia ove, per alcuni, ogni cosa è piatta e uniforme, è uguale all'altra, ossia una cosa vale l'altra.
Invece no, sappiamo che la storia è fatta di tanti momenti che non hanno lo stesso peso e la stessa natura, e sappiamo che la storia non può e non deve essere assoggettata agli interessi politici di un particolare momento. Così come deve essere rintracciata nella memoria e nella coscienza collettiva la matrice dolorosa e drammatica, ma anche eroica e luminosa della Resistenza e delle istituzioni democratiche dell’Italia.
Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_cascone.htm
Il sacrificio della Divisione
Acqui, Milano 20.09.2000
Intervento di
Gerardo Agostani
presidente
nazionale della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e
partigiane.
Proprio in questi giorni, potremmo dire in queste ore, cinquantasette anni fa, nell'isola di Cefalonia si consumava il sacrificio della Divisione Acqui. A distanza di tanti anni siamo qui per ricordare quella tragedia e trarne ancora una volta insegnamento. Non tanto per noi, ormai anziani, ma soprattutto per i giovani, per le nuove generazioni che troppo spesso non conoscono, perché nessuno glielo ha insegnato, quanti sacrifici è costata la conquista della libertà e delle istituzioni democratiche.
Il mondo combattentistico ha memoria lunga: oggi vuole riportare alla mente degli immemori, e insegnare ai giovani che la ignorano, una pagina gloriosa della nostra storia, scritta con il sangue di soldati al servizio dell’Italia. E non basta: il 28 settembre saremo a Cefalonia con una delegazione di parlamentari appartenenti a tutti gli schieramenti politici. Deporremo una corona d'alloro al cippo che ricorda i caduti della Acqui. Un gesto significativo che conferma la volontà di tutti gli italiani di superare ogni lacerazione, a oltre 50 anni dalla fine dei conflitto, rendendo onore a quanti immolarono la vita per la Patria.
Quello della Divisione Acqui è uno dei primi episodi di resistenza organizzata e uno dei pochi che ha visto protagonista una grande unità delle Forze Armate italiane contro l'esercito nazista, all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Mai un così elevato numero di uomini, alcuni dei quali - voglio sottolinearlo - giovanissimi, scelsero in piena coscienza la via dei supremo sacrificio.
Undicimilacinquecento soldati insieme con i loro ufficiali decisero liberamente di affrontare un combattimento impari, contro un nemico feroce, preponderante per uomini e mezzi.
Fra il 13 e il 28 settembre 1943 si compie l'eccidio dell'intera divisione che presidia le isole di Cefalonia e Corfù, di alto valore strategico a causa della loro posizione geografica. Con appassionate rievocazioni lo hanno ricordato in questi lunghi anni i superstiti di quella tragedia: padre Formato, Lorenzo Apollonio, Amos Pampaloni. Memorie viventi di quei giorni terribili.
L’8 settembre 35 divisioni italiane si trovano fuori dei territorio nazionale, impegnate nell'occupazione dei Balcani e delle isole dell'Egeo. Lasciati all'oscuro dell'evolversi della situazione, i comandanti apprendono dell'armistizio ascoltando la radio. Inquadrata nell'Undicesima Armata operante in Grecia, la Divisione Acqui è agli ordini dei generale Antonio Gandin, insignito dell'Ordine Militare di Savoia, ben conosciuto dai tedeschi che lo avevano a loro volta decorato e indicato come possibile comandante delle forze dell'Asse nei Balcani. Nessuna comunicazione gli giunge da Roma. Gandin riceve un radiogramma dei generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell'Undicesima Armata con l'ordine di non assumere iniziative contro i tedeschi, ma di reagire a eventuali aggressioni, in linea con le direttive emanate dal governo Badoglio, di per sé alquanto nebulose.
Il giorno dopo, 9 settembre, Vecchiarelli, che i tedeschi considerano "un buon amico", sottoscrive con loro un accordo e dispone la sostituzione dei reparti italiani con forze germaniche alle quali dovranno essere consegnate le armi collettive, le artiglierie e le rispettive munizioni.
La contraddittorietà degli ordini ricevuti e il totale stato di insicurezza in cui si sarebbero trovate le sue truppe, consegnando le armi, spingono Gandin a intavolare una trattativa con il comandante tedesco, il tenente colonnello Hansen Barge.
Tre le alternative:
· consegnare le armi, subito scartata perché, come visto, avrebbe significato la resa incondizionata e la perdita di ogni onorabilità, anche nei confronti della generosa popolazione di Cefalonia;
· combattere a fianco dei tedeschi, altrettanto improponibile, dati gli ordini dei governo, conseguenti alla firma dell'armistizio;
· combattere contro i tedeschi, eseguendo il dettato dei proclama di Badoglio che parla di reazione "eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
Gandin prende tempo, diluisce per quanto è possibile i colloqui con Barge, tenta di mettersi in contatto con un comando superiore diverso da quello dell’Undicesima Armata, raccoglie informazioni per valutare la situazione, alla ricerca di una soluzione onorevole per non cedere le armi e salvare la vita degli uomini affidati al suo comando.
Fra i fanti e gli ufficiali della Acqui intanto serpeggia l'ostilità verso l'ex alleato, a causa delle prepotenze e delle sopraffazioni di cui è protagonista.
La situazione si deteriora con il trascorrere delle ore. Il generale Gandin è informato dei progressivo rafforzamento dei contingente germanico con uomini e mezzi. Il 13 settembre il colonnello Barge pone l'ultimatum: consegna delle armi entro 24 ore.
Bisogna decidere e in fretta. Fra gli uomini della Acqui c'è insofferenza per la mancata ferma risposta all'ultimatum tedesco. Il generale Gandin recepisce i sentimenti delle sue truppe e la mattina dei 14 settembre accade un fatto senza precedenti nella storia militare: ufficiali, sottufficiali e soldati sono chiamati a pronunciarsi sulla condotta delle operazioni belliche e di conseguenza a scegliere il proprio destino. La memoria dei sopravvissuti ci ha tramandato l'esito di questa libera votazione su un quesito decisivo: arrendersi o combattere contro i tedeschi. Da tutti i reparti l'indicazione è univoca, determinata: "Contro i tedeschi".
E proprio allora, da Brindisi, arriva il messaggio dei Comando Supremo: "Resistere con le armi all'intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia, Corfù e altre isole".
Immediata e violentissima la reazione nazista. Senza aspettare la scadenza dell'ultimatum, il comando tedesco fa bombardare le nostre linee. Le conseguenze sono disastrose: centinaia di vittime e lo sconvolgimento dei piano d'attacco elaborato da Gandin e dai suoi più stretti collaboratori.
Privi di appoggio aeronavale, inferiori per uomini e mezzi, con il solo supporto di tre batterie costiere della Marina e il rinforzo di un reparto della Guardia di Finanza, gli uomini della Divisione Acqui tengono testa al nemico per sette giorni, combattendo con la consapevolezza che il trascorrere dei tempo non gioca a loro favore, e le possibilità di vittoria si riducono di minuto in minuto.
Ogni progresso però comporta per le truppe naziste perdite altissime. Allora, dove non prevalgono le armi, il comando germanico tenta con le pressioni psicologiche, nella speranza di provocare defezioni nei reparti: volantini con la promessa di un immediato ritorno in Patria per quanti si arrenderanno spontaneamente sono lanciati sulle linee italiane. Non trovano risposta.
Gli scontri sono già costati alla Acqui oltre duemila caduti, quando la mattina dei 22 settembre il generale Gandin decide di accettare la resa senza condizioni. Un atto che significa cessazione delle ostilità, ma anche garanzie precise nei confronti dei prigionieri, dei feriti e dei malati inermi, dei personale sanitario, medici e infermieri.
Gli ordini trasmessi da Berlino sono espliciti: fucilare chiunque avesse resistito. In 48 ore i reparti tedeschi, con inaudita ferocia, passano per le armi oltre 5.000 uomini. E poiché gli ufficiali sono stati i principali animatori della resistenza, radunano 265 superstiti alla "Casetta Rossa" e li falciano a raffiche di mitragliatrice a Capo San Teodoro. Primo a cadere è il generale Antonio Gandin, al quale sarà poi concessa la Medaglia d'Oro alla memoria.
Gli scampati alle fucilazioni vengono imbarcati su navi tedesche per essere inviati nei lager. Una volta al largo, i sommergibili alleati colpiscono con i siluri le navi nemiche con a bordo i prigionieri. E aerei alleati, destino beffardo, mitragliano a volo radente i naufraghi.
Caduta Cefalonia, è investita Corfù, presidiata da altri reparti della Acqui, comandati dal colonnello Luigi Lusignani. Due giorni di combattimenti, poi la resa e nuovi massacri nuove fucilazioni, Lusignani in testa.
Fin qui la storia, i fatti, secondo verità, così come testimoniano i superstiti della Acqui, la popolazione di Cefalonia che li aiutò, gli stessi rapporti inviati a Berlino dai massacratori tedeschi.
Con l'aggiunta di una riflessione. Cefalonia racchiude e anticipa l'intera stagione della Resistenza contro il nazismo: dal rifiuto della collaborazione con i tedeschi alla lotta partigiana, alla ricostituzione dell'Esercito italiano che affiancherà gli Alleati da Mignano Montelungo alla Liberazione. Anticipa la ritrovata capacità di decidere con la partecipazione di tutti, la libertà di scegliere il proprio destino con la consapevolezza dei sacrificio da affrontare.
E dopo Cefalonia altri massacri per rappresaglia devasteranno l'Italia: Boves, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, solo per ricordarne alcuni. Un prezzo altissimo, pagato da uomini coraggiosi e dalle popolazioni che parteciparono alla lotta. Il prezzo del riscatto morale e civile per realizzare la Repubblica, istituzioni libere e democratiche, capaci di assicurare una lunga stagione di pace alle nuove generazioni.
Un esempio che abbiamo il dovere di tramandare e insegnare ai giovani, con tutti mezzi, a partire dalle scuole, affinché Cefalonia non sia più dimenticata e non debba più ripetersi.
Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_agostini.htm
Il
sacrificio della Divisione Acqui, Milano 20.09.2000
Intervento
di Tino Casali
vice presidente nazionale dell'ANPI.
Mi associo al presidente Marco Pazzini che ha aperto i lavori di questa assemblea, ed esprimo a nome del presidente nazionale della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane, promotrice di questo incontro sen. Gerardo Agostini, e di Alfredo Cascone, presidente del Comitato milanese, un sentito ringraziamento alle autorità civili e militari che hanno voluto sottolineare con la loro presenza una doverosa riconoscenza ai caduti della Divisione Acqui, protagonisti di una pagina di storia nella gloriosa e tragica vicenda che nel settembre 1943 vide l'eroica resistenza dei soldati italiani alle forze armate tedesche.
Il nostro saluto commosso va ai sopravvissuti e ai familiari dei caduti.
Ai sindaci che hanno voluto essere presenti con i loro gonfaloni decorati al V.M. che simboleggiano le gesta eroiche e il sacrificio anche della vita dei loro concittadini per una Italia libera e democratica e per il riscatto della nazione dopo la lunga notte del fascismo.
Il nostro saluto al prefetto Bruno Ferrante, al sindaco Gabriele Albertini, al generale Luciano Forlani comandante del presidio militare, al questore Giovanni Finazzo, all'assessore Regionale preposto alla Cultura Ettore Albertoni, al presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, alle M .O. al V.M. Vincenzo Capelli, gen. Alberto Li Gobbi e Giovanni Pesce; a tutti coloro che hanno voluto sottolineare con la partecipazione dei medaglieri, dei labari e delle bandiere delle associazioni combattentistiche e d'arma, delle associazioni dei partigiani e dei deportati, la loro significativa presenza.
Ci ritroviamo oggi per rendere omaggio alla memoria dei combattenti di Cefalonia e per ricordare agli immemori che alla data dell’8 settembre 1943 le truppe italiane occupavano parte della Francia, la Jugoslavia, l'Albania, la Grecia, le Isole dell'Egeo e la Corsica. Era questo l'immenso arco lungo il quale era disseminato l'esercito italiano nel momento più tragico della nostra storia nazionale, in un intricato groviglio di avvenimenti, quando, venuta meno una direttiva generale di difesa, si svolse il dramma delle nostre Forze Armate all'estero, prese avvio la Resistenza e diverse unità italiane attaccarono e si batterono anche per riabilitare il nome dell'Italia dinanzi agli occhi degli altri popoli.
È pur vero che in diverse località vi fu la resistenza disperatamente chiusa in se stessa, senza possibilità di sviluppo, che lasciò solo l'eredità del sacrificio, ma vi fu anche quella destinata a prolungarsi nel tempo, ossia vi fu il susseguirsi su una scacchiera così vasta di situazioni diverse, di fatti, che costituirono le radici della identità della nazione italiana e della coscienza democratica che si andava sempre più risvegliando.
Chi ha vissuto o conosce quelle pagine di storia sa che vi furono anche eventi che portarono i militari italiani ad unirsi e ad essere inquadrati nelle formazioni partigiane dei diversi paesi, sconfiggendo lo smarrimento, ritrovando la fierezza della loro italianità, divenendo, da reparti di occupazione, combattenti della libertà ed ambasciatori di pace.
Il prezzo pagato fu proporzionato alla nobiltà dell'impresa: oltre 35.000 soldati italiani, volontari per la libertà dei popoli, caddero sul campo.
Quei nostri morti restituirono onore e dignità al nome dell’Italia all’estero e coloro che sopravvissero agli aspri combattimenti delle prime settimane successive all’armistizio, alle orrende stragi e alle deportazioni, presero in mano la bandiera della libertà e continuarono fino in fondo la lotta. Ciò avveniva mentre entro i confini nazionali, militari e operai, studenti e intellettuali, sceglievano la strada della lotta e della montagna, ed altri si organizzavano nelle città ove si costituivano i primi nuclei di gappisti e sappisti. ,
Ed ancora vi fu la vicenda dei 600.000 internati militari nei lager tedeschi. Forse il termine "internato" non suggerisce alle giovani generazioni particolari immagini di valore. Vi è chi lo vede come una specie di limbo, pallido e squallido, e non riesce a capire quali meriti possa rivendicare dalla storia. Ma è sufficiente ricostruire gli accadimenti, le umiliazioni subite dai militari che, trovatisi sbandati, furono catturati dai tedeschi, avviati alla deportazione ove conobbero il dramma dell'internamento nei lager, senza poter avere, per il loro status, la possibilità di invocare l'applicazione delle garanzie giuridiche internazionali.
Si deve conoscere il dramma degli internati, come affrontarono le condizioni di vita più avvilenti per un essere umano, come e quali sacrifici sopportarono nei lager ove oltre 50.000 italiani lasciarono la loro giovane vita. Vi furono le Unità italiane del risorto esercito che dalla disperata e sanguinosa battaglia di Montelungo alla Linea Gotica, avanzarono, combattendo verso il Po e le città del Centro-Nord. Erano il simbolo dell’Italia che risorgeva con il suo popolo, con le sue nuove e diplomatiche Istituzioni, era la testimonianza che la libertà non veniva regalata ma conquistata con grande sacrificio dai suoi combattenti per la Libertà e dai giovani soldati del rinato esercito italiano.
Avanzavano combattendo e con il Tricolore levato, ripulito dall'onta e dalla vergogna del fascismo, a dimostrazione anche per gli alleati che la libertà non ci veniva regalata ma conquistata con enorme sacrificio di sangue.
È in ispecie nella tragica vicenda della Divisione Acqui che si ritrova sintetizzato il dramma dei militari italiani dislocati all'estero nel momento dell'armistizio, d è questo il motivo e la ragione per cui siamo qui riuniti. Ciò in quanto quello di Cefalonia fu un episodio che si staccò da ogni altro per il profondo significato, che ebbe la straordinaria volontà di rivolta che contemporaneamente infiammò l'animo di migliaia di uomini e che fu tanto forte da avere ragione d'ogni elementare istinto di conservazione.
Un eroico furore dominò tutta l'epopea di Cefalonia ed elevò il sacrificio della Divisione Acqui sul piano della leggenda. Ma sarebbe davvero sbagliato fare di questa storia scritta da una Divisione di soldati un fatto puramente passionale, come alcune volte si è tentato di fare. Io ritengo che proprio dalla epopea di Cefalonia emerga che sempre, ma in specie in guerra, il soldato è solo in parte quello che i regolamenti e l’addestramento vorrebbero: sotto la divisa rimane l’uomo che con la sua infinita problematica ed insopprimibili aspirazioni, con le sue grandi o piccole idealità.
È certo che, al di là di ogni meschina speculazione, Cefalonia rimane l'episodio più tragico e più fulgido di tutta la Resistenza italiana all'estero, e testimoniò all'Italia e al mondo la volontà di riscossa che animava i nostri soldati. A Cefalonia morirono 9.000 soldati italiani e le loro ossa furono abbandonate insepolte nell'isola perché, come si espresse all'epoca il comando della Wermacht: "I ribelli italiani non meritano sepoltura". Sarà solo la pietà dei greci che, più tardi, radunerà quelle spoglie in primitivi tumuli.
Ed allora abbiamo tutti il dovere, al di là di ogni calcolo o furbizia politica, di ogni convenienza e opportunità, identificata anche nella Realpolitik, come purtroppo è avvenuto, di attuare le necessarie iniziative affinché i caduti della Divisione Acqui ed i superstiti abbiano sotto ogni aspetto la giusta e imperitura gratitudine e l'omaggio della nazione e degli italiani.
Nel concludere vorrei rivolgermi alle giovani generazioni ed in ispecie ai giovani militari, per dire loro che non è cosa meschina ma alta e nobile tramandare gli accadimenti che investono la storia patria ed impedire così che la memoria collettiva vada dispersa nel deserto della storia ove, per alcuni, ogni cosa è piatta e uniforme, è uguale all'altra, ossia una cosa vale l'altra.
Invece no, sappiamo che la storia è fatta di tanti momenti che non hanno lo stesso peso e la stessa natura, e sappiamo che la storia non può e non deve essere assoggettata agli interessi politici di un particolare momento. Così come deve essere rintracciata nella memoria e nella coscienza collettiva la matrice dolorosa e drammatica, ma anche eroica e luminosa della Resistenza e delle istituzioni democratiche dell’Italia.
Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_casali.htm
Corriere della Sera
Rassegna Stampa 19 dicembre 2000
INCHIESTA
Il capitano Pampaloni:
"Nel dopoguerra nessuno volle ascoltarci, nemmeno in
Italia" "La raccolta di firme per ricordare le migliaia di militari
italiani massacrati a Cefalonia dalla Wehrmacht dopo l'8 settembre del '43 è un
atto importante, ma rimaniamo perplessi sulla sua efficacia". Amos
Pampaloni e Marcello Venturi, per anni gli unici a conservare, attraverso strade
diverse, la memoria storica di quell'episodio di guerra, uno dei primi della
Resistenza, manifestano entrambi il loro pessimismo sulle reazioni dell'opinione
pubblica e dei governi italiano e tedesco, ai quali è rivolto l'appello dei
fautori della raccolta. Sono trascorsi 57 anni, troppi, senza che da parte delle
istituzioni italiane fossero prese iniziative. E le scuse dei tedeschi,
sollecitate nell'appello, per quel massacro compiuto contro militari inermi,
avrebbero il sapore di una semplice formalità. Amos Pampaloni, fiorentino di 90
anni, era capitano d'artiglieria e fu lui a prendere l'iniziativa contro i
tedeschi ordinando alla sua batteria di far fuoco. Lo conferma la motivazione
della medaglia d'argento assegnatagli: "Fui il primo italiano a sparare
contro i tedeschi e ad animare la Resistenza a Cefalonia".
Dopo la resa, messo al muro dai nemici per essere
fucilato insieme ad altri commilitoni, rimase ferito e si salvò fingendosi
morto. Venne aiutato dagli abitanti dell'isola che lo curarono e lo misero in
contatto con i partigiani. "Sono anni che i reduci di Cefalonia chiedono al
governo di ottenere almeno la Croce di cavalieri al merito come quella di
Vittorio Veneto assegnata ai combattenti della Prima guerra mondiale - dice
amareggiato - ma i ministri e i parlamentari li hanno sempre ignorati.
Ormai è tardi per far qualcosa". Marcello Venturi,
scrittore e storico, fu il primo, con il suo libro Bandiera bianca a Cefalonia,
pubblicato nel '63 da Feltrinelli, a descrivere quel massacro. "Mi occupai
di Cefalonia dopo aver letto un articolo di Pampaloni - racconta -; mi recai
sull'isola e riuscii a ricostruire quel drammatico episodio". Dopo
quell'opera, su Cefalonia è ripiombato il silenzio fino a quando, la scorsa
estate, una troupe americana si è recata nell'isola dello Jonio per girare un
film ispirato a un romanzo dello scrittore inglese Louis De Bernière. Il libro,
Captain Corellìs mandolin (pubblicato in Italia da Longanesi col titolo Una
vita in debito), ricostruisce quell'episodio descrivendo gli italiani con i
luoghi comuni cari a certi inglesi: poco coraggiosi, amanti della musica e delle
donne. "È servito però ad attirare l'attenzione dei media e dell'opinione
pubblica su quella tragedia", afferma Venturi. Infatti ne hanno parlato i
giornali; la Rai ha trasmesso alcuni servizi e pochi mesi dopo è uscito il
libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi), che descrive nei
particolari il dramma dei militari italiani nell'isola. Proprio nel corso della
presentazione ad Acqui Terme dell'opera di Caruso, è nata l'iniziativa di
presentare la petizione per la raccolta delle 11.700 firme, un numero che
corrisponde ai militari della divisione "Acqui" di stanza a Cefalonia.
La battaglia era scoppiata il 13 settembre dopo che il comando tedesco aveva
imposto agli italiani di cedere le armi. C'erano stati alcuni giorni di
trattative promosse dai tedeschi, il cui presidio si trovava in difficoltà per
scarsità di effettivi (uno a dieci rispetto agli ex alleati) e mezzi. In un
primo tempo gli italiani, comandati dal generale Gandin, manifestarono
incertezza soprattutto perché da Badoglio era arrivato l'ordine generico di non
cedere, mentre il comando di Atene aveva ordinato di arrendersi. Gli scontri
scoppiarono perché, nonostante le trattative in corso, i tedeschi
incominciarono a fare affluire rinforzi proprio quando Gandin aveva ordinato
alle sue truppe di abbandonare le posizioni strategiche. La resa avvenne dieci
giorni dopo: gli italiani caduti nei combattimenti furono 1300 e più di 6000,
compreso il comandante, vennero massacrati dalla Wehrmacht, nonostante avessero
deposto le armi. Soldati con le mani alzate uccisi a colpi di mitragliatrice;
centinaia di feriti scaraventati fuori dagli ospedali e trucidati. Degli
scampati, circa 3000 morirono nelle stive delle navi affondate dalle mine
durante il trasporto al Pireo. L'eccidio fu voluto dal generale Hubert Lanz,
comandante dell'armata tedesca dell'Epiro, che in seguito si giustific=
affermando che l'ordine venne direttamente da Hitler. A 57 anni da quel massacro
le migliaia di vittime non hanno ancora ottenuto giustizia. Di Cefalonia si
occupò il Tribunale di Norimberga ma solo perché Lanz comparve come imputato
per altri crimini commessi nell'Epiro.
Nelle sue deposizioni piene di falsità, il generale
definì i militari italiani non combattenti, ma "ribelli" e
"franchi tiratori" che andavano quindi fucilati. Fu poi la Procura
generale di Dortmund a occuparsi dell'eccidio con un'istruttoria aperta dopo
l'uscita del libro di Venturi. Il procuratore di Stato Nachtweh ascoltò 231
testimoni, tutti tedeschi tranne due italiani, Venturi e il cappellano militare
Ghilardini, e due greci. Dopo quattro anni, nel '69 fu emanata la sentenza di
archiviazione. Pochi giorni prima il quotidiano tedesco Die Welt aveva criticato
duramente il libro di Venturi definendolo "la solita falsa campagna contro
l'esercito tedesco". Ma se l'archiviazione di Dortmund venne data per
scontata, è sconcertante il fatto che in Italia non ci furono reazioni. La
nostra magistratura si era mossa prima, ma in senso contrario. L'unico atto
giudiziario su Cefalonia era stato promosso nel '54 per iniziativa di Roberto
Triolo, un giudice genovese che aveva perso il figlio in quell'isola. In seguito
alle pressioni del magistrato, dopo una lunga vicenda giudiziaria, la Procura
militare nel '57 chiese il rinvio a giudizio di Pampaloni e di altri ufficiali
italiani per aver compiuto atti ostili contro i tedeschi e aver quindi provocato
la loro reazione. Ma alla fine prevalse il buonsenso e il giudice istruttore
prosciolse gli imputati. "L'ex ministro Taviani ha spiegato recentemente
che il governo tacque per non irritare la Repubblica federale tedesca, alleata
preziosa durante la Guerra fredda - ricorda Venturi -. Ma secondo quella logica
non avrebbero dovuto essere ricordate neanche le vittime delle Ardeatine, di
Marzabotto e di Sant'Anna di Stazzema".
Dal sito:
http://www.iue.it/LIB/SISSCO/racine/12-00/19-12-00.html
Cefalonia: l’ex Ministro ammette “ho
insabbiato le indagini”
Roma - La strage di Cefalonia, nella quale
furono massacrati dalle truppe tedesche 6.500 soldati italiani, fu insabbiata
nell'autunno del 1956 in nome della ragione di Stato. Lo riconosce il senatore a
vita Paolo Emilio Taviani, 88 anni, all'epoca ex ministro democristiano della
Difesa, in un'intervista al settimanale "L'Espresso", che la pubblica
nel numero in edicola domani. "Io debbo rispondere soltanto di una sigla
apposta in calce a una lettera del mio collega Gaetano Martino",
puntualizza Taviani, presidente dell'Associazione dei partigiani cattolici, dopo
aver appreso della pubblicazione da parte dell'"Espresso" dell'inedita
corrispondenza tra lui e l'allora ministro degli Esteri Martino con la quale si
decideva di non perseguire i responsabili dell'eccidio consumato sull'isola
dello Ionio tra il 20 e il 22 settembre 1943.
"Non intendo minimizzare. Il mio consenso contribuì certamente a creare
quella che lei (il giornalista Franco Giustolisi, suo intervistatore, ndr)
definisce la sepoltura della giustizia. Dire che oggi lo rifarei - dichiara
Taviani - sarebbe una gratuita provocazione. E cercare di far capire che forse
in quei momenti convulsi non compresi appieno il significato di quella
decisione, sarebbe come cercare a posteriori delle giustificazioni impossibili.
La verità è che la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise, anche a
costo di...". A Cefalonia i soldati della divisione Aqui furono
selvaggiamente massacrati dopo essersi arresi. L'ordine, impartito da Hitler,
venne eseguito con determinazione inumana. "E' stata una delle azioni più
arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato",
disse il rappresentante dell'accusa al processo di Norimberga. Finita la guerra,
familiari delle vittime e superstiti si batterono perchè i 31 militari tedeschi
responsabili di quell'eccidio venissero processati. Niente da fare, la politica
pose il vieto, risulta dalle carte insabbiate consultate da
"L'Espresso". Era l'ottobre del 1956: Gaetano Martino, liberale,
ministro degli Esteri, scrisse a Taviani, ministro della Difesa, proponendogli
in sostanza l'affossamento di ogni percorso di giustizia. E ciò in nome della
risurrezione della Wermacht, (esercito tedesco), necessaria alla Nato in
funzione anti-Urss.
"Aveva anche ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per
l'orrendo crimine di Cefalonia - riconosce oggi Taviani - avrebbe colpito
l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per
l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo. Io sono stato uno dei
precursori del riarmo della Germania. Sia ben chiaro che questo non lo dico ora
che vengo chiamato in causa dopo la pubblicazione del carteggio tra me e
Martino: lo testimoniano tanti articoli, tante dichiarazioni sin dal 1953".
"Non cerco alibi o scusanti, dico come stanno le cose a guidarmi fu la
ragione di Stato", aggiunge il senatore a vita. L'ex ministro della Difesa
nega di aver mai dato l'ordine di insabbiare i fascicoli di altri crimini
nazisti, custoditi nell' "armadio della vergogna" nella sede della
Procura generale militare a Roma, dove "L'Espresso" ha potuto
consultare la documentazione inedita che dimostra che in molti casi furono
accertati i responsabili ma non perseguiti. "La tragedia di Cefalonia,
orribile, feroce, inumana, era stata provocata dalla guerra, era una coda della
guerra, un qualcosa che era avvenuto tra militari. Ben diverso lo sterminio di
civili, bambini, donne, vecchi, uomini, gente indifesa, uccisa spesso neanche
per rappresaglia. No, io non detti quell'ordine - assicura Paolo Emilio Taviani
-, non lo avrei mai dato neanche per ragioni di Stato".
Secondo Taviani, tuttavia, la decisione di insabbiare i crimini nazisti "dovrebbe
essere stata presa prima" del 1955, quando presidente del Consiglio era
Alcide De Gasperi. "Ma sarei molto sorpreso se emergesse una sua
responsabilità", si affretta subito a precisare l'ex ministro
democristiano. A una domanda del giornalista de "L'Espresso" circa la
possibilità che possa essere stato il suo precedessore alla Difesa, Randolfo
Pacciardi, a impartire l'ordine di insabbiamento, Taviani risponde: "Io non
penso niente". E poi aggiunge: "So quel che tutti sanno. Pacciardi era
un feroce anticomunista. E ministro degli Esteri più o meno dello stesso
periodo fu Carlo Sforza, anche lui repubblicano e di comprovata fede
atlantico-americana".
"Il senatore Taviani si dovrebbe solo vergognare. E' da tempo che sapevo del suo tacito assenso sull'insabbiamento dell'inchiesta della magistratura militare sull'eccidio di Cefalonia, cosa che oggi rivendica quasi come un'azione meritoria compiuta in nome di una ragione di Stato a mio giudizio incomprensibile". Non usa mezzi termini la medaglia d'argento al valor militare Amos Pampaloni, ex capitano di artigleria della divisione Acqui spedita da Mussolini sull'isola di Cefalonia. A 90 anni Pampaloni, residente a Firenze, è uno dei pochi sopravvissuti alla strage nazista sull'isola greca nello Jonio. "Sono vivo per miracolo, perchè la pallottola che mi sparò il plotone di esecuzione tedesco mi trapassò il collo senza toccare organi vitali", racconta oggi Pampaloni. La storia dell'ex capitano ispirò il romanzo "Bandiera bianca a Cefalonia" di Marcello Venturi, tradotto dal 1963 in poi in sedici lingue. Pampaloni contesta invece il romanzo di Louis de Berniere "Il capitano Corelli" (1994), che a suo giudizio si sarebbe ispirato alla sua vicenda stravolgendo i fatti."E' sorprendente che Taviani abbia consentito un simile insabbiamento, tanto più che egli è stato ed è tuttora presidente dell'Associazione dei partigiani cattolici", ha detto Pampaloni. "Nel 1956 il governo italiano si oppose al proseguimento delle indagini - ha aggiunto l'ex capitano di artigleria - da parte di un magistrato militare che era sulle tracce di una trentina di ufficiali tedeschi che ordinarono l'eccidio d Cefalonia. Ma la cosa ancora più grave è che negli anni Cinquanta non solo fu insabbiata la strage di Cefalonia, ma anche le inchieste di altri 690 crimini nazifascisti".
da Adnkronos del 9 novembre 2000
dal sito: http://www.storiainrete.com/notizie/novembre2000/cefalonia.htm
Cefalonia
fa ancora paura
di
Amos Pampaloni*
Ad Amos Pampaloni ex capitano della divisione Acqui, superstite di Cefalonia,
ferito gravemente dai tedeschi che tentarono di ucciderlo, aiutato dai
partigiani greci con in quali poi combatté contro l’invasore, abbiamo chiesto
un parere sulla trasmissione condotta da Pippo Baudo riguardante il massacro di
Cefalonia.
Non ho certamente
apprezzato la trasmissione “Novecento” della sera di lunedì 2 aprile
condotta da Pippo Baudo. Non mi è sembrato opportuno parlare pochi minuti del
tragico olocausto di Cefalonia fra una canzonetta e l’altra e fra un racconto
di vita di un attore e quello di una cantante.
Cefalonia
dovrebbe essere ricordata - per rispetto dell’eroismo dei Caduti e del
sacrificio dei sopravvissuti miracolosamente - richiamando l’attenzione dei
telespettatori sul coraggio e la dignità dei militari della Divisione di
fanteria da montagna “Acqui”: combattemmo contro i tedeschi abbandonati dal
Governo Badoglio e dagli anglo-americani, andando incontro ad uno sterminio
collettivo per gli Stukas che bombardavano e mitragliavano dall’alba alla
notte gli italiani e per il barbaro ordine di Hitler di assassinare i
prigionieri, dopo la resa.
La
mia apparizione nella trasmissione è ripresa da un altro più completo
servizio, fatto in occasione del pellegrinaggio nell’isola del presidente
della Repubblica Ciampi, e completamente censurato. Questo è avvenuto, secondo
me, per evitare che si facesse il minimo accenno al vergognoso insabbiamento
dell’inutile richiesta di un procuratore militare di giudicare 32 ufficiali
tedeschi ritenuti responsabili del massacro. Furono due ministri del governo
Segni di centro destra del 1956, Martino e Taviani a dare l’ordine
dell’insabbiamento, anzi del seppellimento nell’Armadio della vergogna di
tutte le denunce.
Non
si è approfittato, inoltre, nella trasmissione, per ricordare che Cefalonia fu
il primo esempio della Resistenza armata ai tedeschi. Lì iniziò un’epopea
nuova ed un riscatto per la nostra patria. La guerra di Liberazione è stata
combattuta dalle forze armate in Egeo, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia, in
Francia, in Italia col corpo italiano di liberazione, con i gruppi di
combattimento con militari di professione e di leva nelle file partigiane, con i
partigiani, con la marina. E non dimentichiamo i 144.000 internati morti nei
lager nazisti.
La
Resistenza è un vero e proprio secondo Risorgimento: non è solo patrimonio
patriottico delle forze armate e dei partigiani ma è di tutto il popolo
italiano dal sud al nord, esclusi pochi sciagurati seguaci di Graziani e
Borghese. Lo testimoniano le numerose ricompense al valore militare concesse a
civili, a Regioni, a province, a città, a paesi per il determinante aiuto
materiale e morale dato ai combattenti della libertà al costo di persecuzioni,
arresti, distruzioni, deportazioni nei campi di sterminio e di prigionia.
*) Amos Pampaloni, presidente dell'Associazione Nazionale combattenti e reduci, medaglia d’argento al valore militare, reduce di Cefalonia.
Dal sito: http://www.kwlibri.kataweb.it/polemica/paura_090401.shtml