Dalla stampa nel WEB


Alcuni siti d'interesse:
 http://www.cronologia.it/storia/a1943i.htm
http://www.cefalonia.it/


Sabato 26 Maggio 2001, 17:41  

Cinema, l'Autore Del Libro Difende La Cefalonia Di Cage

(AGI) - Hay-on-Wye (Galles), 26 mag. - L'autore del bestseller sulla strage di Cefalonia "Il mandolino del capitano Corelli" ha difeso l'omonimo film americano di John Madden con Nicolas Cage, in uscita in Europa. Dopo le stroncature della critica alla prima del film a Londra, Louis de Bernieres ha affermato che "si e' superato il limite" e sono state espresse riserve "del tutto irragionevoli". "Io credo che sia stato colto lo spirito del libro, in particolare nella scena del massacro dei giovani italiani", ha spiegato de Bernieres, che ha assistito personalmente alle riprese del film in Grecia. Lo scrittore ha promosso anche il protagonista, Cage: "Corelli me lo immaginavo piu' piccolo e vivace, lui e' alto e misurato: ma quando gli ho visto interpretare alcune scene l'ho trovato assolutamente adatto".

"Il mandolino del capitano Corelli" arrivera' in Italia dopo l'estate. Attualmente e' in uscita un altro film sulla strage di Cefalonia, "I giorni dell'odio e dell'amore" dell'italiano Claver Salizzato. (AGI)

 

 Da: http://it.news.yahoo.com/010526/14/11doq.html


(dal sito dell'ANPI)

L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del generale Antonio Gandin, si trovò di fronte alla consueta alternativa: o arrendersi e cedere le armi ai tedeschi o affrontare la resistenza armata, sapendo di non poter contare su alcun aiuto esterno. Tra il 9 e l’11 settembre si svolsero estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fece affluire sull’isola nuove truppe. L’11 settembre arrivò l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a cedere le armi.
All’alba del 13 settembre batterie italiane aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco carichi di tedeschi. Barge rispose con un ulteriore ultimatum, che conteneva la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi. Gandin chiese allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. Tramite un referendum i soldati scelsero all’unanimità di resistere.
Il 15 settembre cominciò la battaglia che si protrasse sino al 22 settembre, con drastici interventi degli aerei Stukas che mitragliarono e bombardano le truppe italiane. I nostri soldati si difesero con coraggio, ma non ci fu scampo: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.
L’Acqui si dovette arrendere, la vendetta tedesca fu spietata e senza ragionevole giustificazione. Il Comando superiore tedesco ribadì che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer".
Il 24 settembre Gandin venne fucilato alla schiena; in una scuola 600 soldati italiani con i loro ufficiali furono falciati dal tiro delle mitragliatrici; 360 ufficiali furono uccisi a gruppetti nel cortile della casetta rossa. Questi gli ordini del generale Hubert Lanz, responsabile dell’eccidio: "Gli ufficiali che hanno combattuto contro le unità tedesche sono da fucilare con l’eccezione di: 1) fascisti, 2) ufficiali di origine germanica, 3) ufficiali medici, 4) cappellani. 5) fucilazioni fuori dalla città, nessuna apertura di fosse, divieto di accesso ai soldati tedeschi e alla popolazione civile. 6) nessuna fucilazione sull’isola, portarsi al largo e affondare i corpi in punti diversi dopo averli zavorrati".
Alla fine saranno 5.000 i soldati massacrati, 446 gli ufficiali; 3.000 superstiti, caricati su tre piroscafi con destinazione i lager tedeschi, scomparirono in mare affondati dalle mine. In tutto 9.640 caduti, la Divisione Acqui annientata.
Molti dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono tedesco di Cefalonia si mantenne in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli alleati.

Il racconto inedito di un ufficiale della divisione Acqui decimata dai nazisti nell'isola greca dopo l'8 settembre

"Nell'orrore di Cefalonia scampai alla furia tedesca"
di MARIANO BARLETTA 

Dalla tragedia di Cefalonia, dove la divisione Acqui fu massacrata dai tedeschi, affiora la testimonianza di uno scampato, Mariano Barletta, scomparso nel 1984. Il figlio dell'autore l'ha "donata" al sito Internet dell'Anpi. Questo è il capitolo che racconta l'eccidio.

GIUNSE poco dopo un ufficiale tedesco in motocicletta seguito da un'autocarretta e, appartatosi a dare segrete istruzioni al capo pattuglia, ordinò poi che noi ufficiali vi montassimo. Qualcuno domandò se ci era consentito portare i bagagli ed egli, dopo breve esitazione, rispose di si, purché avessimo fatto presto.
Alla svelta, con i miei tre amici e Baldini, ritornai nella casa, misi la coperta a tracolla e, reggendo da un lato la valigia e dall'altro l'involto fui di nuovo sulla strada.
"Comandante" - mi disse Baldini mentre tra i primi montavo sull'autocarretta - "Posso venire anch'io?"
"Mio caro, se è per me vieni pure!"
Visto che nessuno vi si opponeva egli montò felice di non separarsi da me.
Nel frattempo, sopraggiunse il maggiore Pica con i suoi artiglieri e, constatato che sull'autocarretta c'era la mia ordinanza, ritenne che ciò per un'esplicita autorizzazione e, soddisfatto che i tedeschi ci usassero tanto riguardo, chiamò il soldato al suo servizio e gli disse di seguirlo.
L'autocarretta si mise in moto e, traballando per il sovraccarico di uomini e per le affossature della strada, si avviò verso Faraò; oltre l'autista, erano con noi due soldati dei quali uno, armato di mitragliatrice, portava a tracolla un lungo nastro di lucidi proiettili. All'altezza della bicocca ove si erano acquartierati i miei marinai, superammo con difficoltà un'interruzione della strada causata da una bomba e quindi, nel più assoluto silenzio, proseguimmo lentamente verso l'ignota destinazione.
Era convincimento di ognuno che saremmo stati rinchiusi in qualche edificio del capoluogo e, pertanto, grande fu la sorpresa quando, giunti al bivio dal quale si vedeva lo sconquasso della palazzina ove era installato il comando della batteria, l'autista anziché girare a destra per andare ad Argostoli, girò dal lato opposto dirigendo così verso la spiaggia di Lardigò.
"Dove ci portano?" - chiesi fra me e, come se quelle parole non proferite avessero eco sentii che alle mie spalle si sussurrava: "Dove ci portano? Dove ci portano?"
Superato il bivio, nel silenzio sempre più grave di noi tutti, l'autocarretta continuò la sua lenta marcia per la strada in discesa sotto un bel cielo terso, tra i campi che, assolati e spogli per la recente mietitura, dall'uno e dall'altro lato degradavano a terrazze. Io che ero in piedi, alle spalle dell'autista, cominciai a vedere l'estrema punta di Lardigò, il mare e l'isolotto Verdini con l'alto faro che si stagliava netto nel barbaglio dell'acqua: il placido aspetto della natura faceva contrasto all'arrovellarsi della mente, al tumulto del cuore.
Ad una svolta, c'imbattemmo nel capitano commissario Pozzi e nel tenente Seggiaro, comandante della 208 che tranquillamente risalivano a Faraò. Meravigliato, come se non sapesse che la situazione era irrimediabilmente disperata fin dalla sera precedente, con molta ingenuità Pozzi domandò come mai le ostilità erano terminate così presto. Mentre qualcuno gli diceva che non si poteva fare diversamente, l'autocarretta si fermò ed uno dei tedeschi, avvicinatosi ai due, li disarmò e s'impossessò dei loro oggetti di valore fra i quali faceva spicco il vistoso orologio d'oro del capitano.
Compiuta quell'ennesima rapina il soldato che pareva avesse la facoltà di comandare, ci ordinò di scendere dall'auto carretta. Restammo sorpresi: perché mai se dall'uno e dall'altro lato della strada non c'erano che campi deserti? Che compito avevano quei tre soldati?
Ad uno ad uno venimmo giù e già pensavo con cruccio alla marcia chi sa quanto lunga, che forse avrei dovuto compiere sotto i dardeggianti raggi solari, col pesante scomodo bagaglio quando con nostra maggiore sorpresa ci fu ordinato di deporre valigie, cassette, fagotti sul ciglio della strada e di disporci in fila indiana.
Senza scambiare tra noi neanche un'occhiata, ci allineammo sotto lo sguardo arcigno di quei tre cavalieri della nuova apocalisse e ci ponemmo in marcia, discendendo verso il mare; uno dei tedeschi era in testa, quello con la mitragliatrice era in coda. Ad un tratto, un ufficiale non si trovò più allineato ed il tedesco che fuori riga sorvegliava che tutto procedesse secondo il suo sinistro proposito, si adirò, proruppe in roche parole di rabbia, poi tutto ritornò nell'apparente tranquillità di prima: si udiva soltanto lo scalpiccio dei passi ed il frinire delle cicale.
All'improvviso, il capofila volse a destra e saltò in un campo e noi, per non dare pretesto ad una feroce rappresaglia, lo seguimmo mansueti avendo cura di mantenerci allineati onde evitare che l'iracondo soldato si adirasse.
Ero al terzo posto; quando tutti fummo nel campo, il capofila sostò e, prima ancora che potessi rendermi conto di ciò che si preparava vidi un capitano che mi precedeva alzare le braccia e gridare:
- "Kamedad! Kamerad!" -
Mi volsi istintivamente a destra e quanto vidi mi fece raccapricciare: il tedesco che ci aveva seguiti con la mitragliatrice ed il luccicante nastro di proiettili a tracolla era a cinque, sei metri da noi, disteso a terra, davanti all'arma già postata sul bipede e si accingeva a fare fuoco. 
In un attimo mi fu chiaro ogni cosa ed ogni mia residua illusione, ogni mia estrema speranza si spense nella morsa che mi strinse il cuore. Ora sapevo bene dove mi avevano condotto quei tre masnadieri travestiti da soldati: ero alle soglie del sonno eterno!
Fortemente turbato, non pensando alla vanità della protesta verbale, mi unii all'alto coro esecrante degli altri che cercavano far valere il nostro diritto alla vita, ma quel tale dei tre che aveva la facoltà del comando, ripeteva inflessibile:
"Nein, nein!"
Quante volte, esposto al pericolo, avevo pensato che anche per me potesse scoccare in guerra l'ora suprema e quasi mi sentivo pronto al duro evento, ma ora che l'ipotesi si era tramutata in realtà, ora che la nera costellazione culminava sul mio orizzonte e mi diceva: - "Vieni!" - quanto travaglio della mente, quant'agitazione dell'animo!
Morire! ... Si, presto o tardi tutti dobbiamo morire ed il pensiero della morte è sempre presente a chi non vive di solo pane, ma quanta tristezza lasciare la vita a quel modo! Con l'avidità di chi sta per perdere un sommo bene e vuole goderne il più che sia possibile, con rapidità vertiginosa vidi le arene vicende della mia vita; vidi l'infanzia triste, la grama fanciullezza, la travagliata adolescenza, le prime faticose affermazioni, l'avvenire che avevo sognato e te, Mamma, vidi e vidi te, Nerina, povere donne, piangerebbe lacrime ancora più amare, e voi due, Elio e Lucio, teneri virgulti, vita della mia vita, ai quali tanto ancora dovevo e nulla più potevo dare, neanche la dolcezza accorata di portare crisantemi ad una tomba.
O anime care al mio cuore, o piccole grandi cose che foste l'essenza dei giorni miei, addio, addio!
Quanto durò il tumultuoso ricordare, il rapido susseguirsi d'immagini che si rincorrevano come onde spumeggianti di un mare in tempesta? Non lo so. Per l'ultima volta il mio sguardo incontrò Neri, poi la mitragliatrice cominciò a sgranellare il nastro di proiettili e subito vidi Baldini, che mi stava accanto, sollevare le braccia ed abbattersi col viso contratto; nello stesso istante, come se l'avessi già progettato o qualcuno, in quel momento estremo, me l'avesse suggerito, mi lasciai cadere bocconi, come per morte istantanea, e mi mantenni inerte sul terreno.
Alla sventagliata della mitragliatrice seguì un profondo silenzio. Ero disteso con la gamba destra allungata, la sinistra leggermente piegata nel ginocchio, le braccia in lieve arco intorno alla testa e le mani come rattrappite; trattenendo il respiro, quasi reprimendo i battiti del cuore, procuravo che ogni cosa avesse in me l'aspetto dell'abbandono esanime della morte. Attraverso le palpebre socchiuse nulla potevo vedere oltre il palmo di terriccio a contatto del viso, né percepivo voci o rumori: unico segno di vita il monotono frinire delle cicale.
In quel breve silenzio, che per me fu lungo quanto lo sono i secondi nei momenti gravi, sentendomi illeso e non ascoltando lamenti o respiri difficoltosi, mi domandai se tutta quella faccenda non fosse una diabolica burla di quei tre soldati, ma ebbe breve durata quella troppo ingenua supposizione. Presto avvertii il rantolo dei moribondi e, poco lontano, alla mia destra, un sordo stridore, uno scatto metallico, ed infine un cupo sparo: il soldato tedesco che con tanta perizia ci aveva condotto a morire, che alle nostre proteste aveva risposto inflessibile: - "Nein, nein!" - quello stesso soldato, in ossequio alle leggi umanitarie della guerra, veniva a darci il colpo di grazia, lui tanto buono, per non farci soffrire!
Dopo ognuna di quelle esecuzioni supplementari, sentivo i lenti passi striscianti del pio giustiziere che si avvicinava.Davanti alla mitragliatrice, con l'animo stretto da grande angoscia, non mi fu certamente facile conservare il sangue freddo e superare il terribile istante oltre il quale mi attendeva la morte, ma quanto mi fu più difficile rimanere inchiodato lì, a terra, pieno di vita, col cervello più lucido che mai, senza contrarre un muscolo, senza un battere di ciglio e attendere, per la seconda volta, che si compisse il destino.
La trepidazione giunse all'apice. Dai passi avvertii che il soldato si appressava, che si era fermato non lontano da ma dal lato dei piedi; dallo stridore metallico mi resi conto che il proiettile veniva immesso nella canna, ed infine udii il cupo fragore: per la seconda volta ero illeso; ritenendo forse che già fossi nel mistero dell'oltretomba, il soldato aveva diretto il colpo ad uno dei due infelici morituri che, ciascuno per lato, mi stavano accanto.
Seguirono ancora altri spari poi l'esecuzioni complementari terminarono e lo scalpiccio del pio giustiziere si perdé lontano, ma io continuai a rimanere immobile, come per una gara di resistenza, mentre, per lo stato emotivo e la forte radiazione solare, il sudore gocciolava copioso lungo l'orlo della visiera ed il rantolo dei moribondi, dapprima lieve, si faceva sempre più roco e straziante.
(25 aprile 2001)


TESTIMONIANZE Si rompe in Germania la «congiura del silenzio» sull’assassinio dei 5000 soldati italiani: due diari rivelano particolari raccapriccianti
La strage di Cefalonia con gli occhi degli aguzzini
«Li portano vicino al ponte e li fucilano. Le grida arrivano fin nelle case dei greci»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE 
BERLINO - Il massacro di Cefalonia raccontato dalla parte dei carnefici. L’assassinio sistematico di cinquemila soldati italiani della Divisione Acqui, che si erano già arresi ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, nella testimonianza di alcuni alpini della Wehrmacht, che videro l’orrore e vollero confidare ai diari personali il disgusto e l’onta: «È una vergogna come si comportano i soldati tedeschi». Si rompe per la prima volta in Germania la congiura del silenzio. Grazie a due ex soldati dell’esercito hitleriano e ad alcune testimonianze inedite, la strage dell’isola greca può essere adesso ricostruita in tutta la sua agghiacciante brutalità. Il diario dell’alpino Waldemar Taudtmann e del suo superiore, Alfred Richter, sono al centro della puntata di History, programma di storia della Zdf, che la seconda rete pubblica tedesca dedica questa sera a uno dei crimini più efferati e meno conosciuti della Seconda Guerra Mondiale. 
La Süddeutsche Zeitung ne ha anticipato ieri ampi estratti. «Non si faranno prigionieri, tutto ciò che appare davanti agli occhi verrà abbattuto», nota Taudtmann sul suo quaderno, la mattina del 20 settembre. È il prologo della mattanza. L’ordine è verosimilmente venuto da Hitler in persona, anche se l’altro testimone, il sottufficiale Richter, preferisce non crederci: «Dubito - scriverà due giorni dopo, a scempio già compiuto - che un simile ordine sia mai arrivato, penso piuttosto all’ubriacatura dispotica dei comandanti, per quali la vita delle persone non è che un numero». 
E i numeri di Cefalonia sono tali che anche alcuni fra i tedeschi ne rimangono atterriti. «Fucilati, abbattuti, calpestati con gli scarponi da montagna, gli uomini dell’artiglieria costiera giacciono ancora ai loro posti», annota Richter il 21 settembre, nel vedere i corpi senza vita dei soldati di una postazione italiana. Una giornata tragica, la prima dell’autunno 1943. Al mattino, il 98mo reggimento del III battaglione degli alpini tedeschi riceve l’ordine di attaccare la città di Diglinata e neutralizzare le due compagnie italiane che la controllano. Ma lo scontro in pratica non c’è. Ecco il racconto di Richter, in forza a un’altra unità: «Vengono sparati soltanto pochi colpi, poi gli italiani agitano i fazzoletti bianchi e cominciano a venir fuori a gruppi, correndo. Ma quando noi raggiungiamo l’altura, li troviamo tutti per terra, morti, sono tutti stati colpiti alla testa. Quelli del 98.mo li hanno dunque uccisi dopo che si erano arresi». 
Ma l’esperienza peggiore è quella del pomeriggio, quando il battaglione di Richter accetta la resa di altre due compagnie di alpini degli ex alleati: «Non vogliono combattere contro di noi e pensano di aver salvato la vita arrendendosi. Torniamo a Frangata e consegniamo i prigionieri. Ma qui li attende una sentenza terribile. Li portano vicino al ponte, nei campi recintati da muri fuori dalla città, e li fucilano. Rimaniamo due ore sul posto e per tutto il tempo sentiamo i colpi senza interruzione..., le grida arrivano fin nelle case dei greci. Anche medici e preti partecipano alle esecuzioni... Un gruppo di soldati bavaresi prova a rifiutarsi, ma un ufficiale li minaccia di mettere anche loro al muro. Fa una figura tragicomica un prigioniero, che si salva la vita salendo su una pedana e cantando con bella voce arie d’opera italiana, mentre i suoi compagni vengono uccisi». 
Cefalonia non fu il primo, né l’ultimo crimine di guerra di cui si macchiarono gli alpini nazisti in Grecia. Come spiega alla Zdf lo storico di Colonia Carlo Gentile, già nell’agosto 1943, nel villaggio di Kommeno, oltre 300 persone, in pratica l’intera popolazione, erano state trucidate, molte donne violentate e poi bruciate vive. Mentre, il 4 ottobre dello stesso anno, un altro commando di «Gebirgsjaeger» fucilò il generale italiano Ernesto Chiminello e 130 ufficiali: «I loro corpi - è sempre il diario di Richter a riferirlo - furono gettati in mare con delle pietre appese alle gambe». 
Alla congiura del silenzio, che per oltre cinquant’anni ha tenuto nascosti i dettagli di Cefalonia, hanno contribuito, come spiega la Süddeutsche Zeitung , «le associazioni degli ex combattenti, la giustizia e anche apparati governativi». Così, un’indagine dei giudici di Dortmund del 1965 non venne mai resa pubblica. E, nel 1973, una richiesta di intervista della Rai al procuratore coinvolto, complice anche il rifiuto del ministero degli Esteri, venne rifiutata. 
Paolo Valentino 
Corriere della Sera
Domenica 25 Marzo 2001 


L'orrore e l'orgoglio dei reduci. "Urlammo: non siamo vigliacchi" 
Sull'isola dell'eccidio dei diecimila soldati italiani con il presidente Ciampi e cinquanta sopravvissuti
il racconto

JENNER MELETTI 
CEFALONIA – Il vento freddo scende dalle montagne, ma il gelo di Nicola Russigno, 80 anni, arriva dalla memoria. «Quando lo racconto, non mi credono. Eppure su quest'isola, nel settembre del 1943, c'erano i miei colleghi ufficiali che si offrivano volontari per la fucilazione. "Vado io, così la facciamo finita". C'era quasi una gara per andare prima degli altri davanti al plotone. Ecco, se si capisce una cosa come questa, si può comprendere cosa sia stata la tragedia di Cefalonia».
Quella di Nicola Russigno, sottotenente di Taranto, è una delle 11.500 storie italiane di quest'isola greca che sembra troppo piccola per una guerra così crudele. Diecimila soldati assassinati dall' esercito tedesco, e gli altri millecinquecento che da allora vivono nel loro ricordo. «Quella è la Casetta Rossa. Non era così, allora, ma ha mantenuto lo stesso colore. Io e gli altri ufficiali fummo portati lì, dopo la resa. Appena scesi dal camion abbiamo capito tutto. C'era il prete, don Formato, con la croce in mano che confessava e benediceva. Ci prendevano quattro alla volta, ci portavano sull'orlo di un fosso, e sparavano. Così i corpi sparivano. Per questo tanti si sono offerti volontari: meglio morire subito, che stare lì in agonia. Io mi sono salvato perché ero nell'ultimo gruppo. Avevo già dato una fotografia a don Formato, perché la mandasse a mio pare, e il prete si è messo a gridare: "Basta, soldati tedeschi. Ne avete ammazzato abbastanza, state fucilando da questa mattina. Salvate almeno questi ultimi". E così ci hanno tenuti come prigionieri».
Sono rimasti solo gli eucalipti, a ricordare quel settembre di guerra. Prima le bombe dei tedeschi, poi il terremoto del '53, hanno cambiato il volto di Argostoli, il capoluogo dell'isola. Solo questi alberi profumati permettono di rintracciare il viale che allora si chiamava Principe di Piemonte. Partiva da piazza Valianos e arrivava a San Teodoro, dove adesso c'è il monumento ai Caduti italiani, e la fanfara suona «Fratelli d'Italia» davanti al Presidente. 
Nel cuore dei cinquanta soldati di allora, portati sull'isola da un aereo dell'Aeronautica militare, l'orgoglio oggi è più forte della tristezza. Dopo Sandro Pertini, che venne qui nel 1980 e disse che questo olocausto è stato dimenticato «per omertà tedesca e ignoranza italiana», adesso Azeglio Ciampi, davanti alle pietre di granito nero, ripete che «qui è nata la Resistenza italiana». Ci sono gli elicotteri pronti per portare i reduci a pranzo sull' ammiraglia Garibaldi. 
«Aerei, elicottero, navi. Fossero arrivati allora». Luigi Baldassari, classe 1916, è tornato qui dalla Valsugana. «Abbiamo deciso di resistere, di non consegnare le armi ai tedeschi, soprattutto perché, di quelli là, non ci fidavamo. E poi il governo che era in esilio a Brindisi aveva detto: resistete. Gli ufficiali, soprattutto quelli di grado più basso, ci dicevano: bisogna fare qualcosa, dobbiamo guadagnarci dei meriti. Se combattiamo contro i tedeschi, gli Alleati arriveranno a darci una mano, e così potremo tornare a casa presto. Ma siamo stati fregati. Il Re? Non sapevamo nemmeno che fosse scappato, in quei giorni. Eravamo stanchi della guerra, ma non volevamo fare la figura dei vigliacchi di fronte ai tedeschi. Così, in una sola notte, tutti noi soldati abbiamo detto agli ufficiali: non ci arrendiamo». 
Amos Pampaloni, l'uomo che per primo ordinò il fuoco della sua batteria contro tre zatteroni tedeschi che portavano carri armati e uomini in rinforzo alla Wehrmacht (in sfregio alla tregua concordata) anche oggi ha idee precise. «Non ci sarebbe stato il massacro se il Re, invece di scappare, avesse dichiarato subito la guerra alla Germania. In quel momento, sull'isola, c'erano 11.500 italiani e 3.000 tedeschi. E invece no, siamo rimasti lì ad aspettare, e intanto la Wehrmacht organizzava la sua aviazione. Le scuse della Germania per il massacro? A cosa servono, ormai. Diamoci da fare, invece, per fermare le quaranta guerre che anche oggi si possono contare nel mondo».
L'ex capitano ce l'ha anche con il romanzo dell'inglese Luis de Bernieres, «Il mandolino del capitan Corelli», che ha ispirato un film che presto sarà nelle sale. «Ho letto il libro, e posso dire che è razzista. Sarei io, il capitano Corelli, e dal mattino alla sera non farei altro che suonare il mandolino, organizzando concerti e cori, con qualche vacanza al mare con le prostitute. Sì, ho saputo che al presidente Ciampi il libro invece sarebbe piaciuto, e io gli ho detto: "Lei il libro l'ha solo sfogliato, vero?", e lui si è messo a ridere».
Ci sono anche i figli dei morti, oggi sull'isola. «Mio padre, Egidio Gelera, è caduto su quella montagna là, tutta sassi. Come potevano scappare agli Stukas? Quella gola si riempì di morti. Mio padre l'ho visto quando avevo sette anni, era venuto in licenza, e mi portò con lui a caccia». Inni e preghiere anche davanti al monumento dei Caduti greci, poi una corona di fiori viene gettata in mare dal Garibaldi per ricordare coloro che morirono nelle navi in fuga, dilaniati dalle mine. Suona il silenzio, e un plotone scarica tre raffiche in aria. Qualcuno di coloro che sono tornati, con la scritta «Reduce» sul petto, tenta un saluto militare. Altri si mettono a piangere, come Domenico Bellaria di Termini Imerese. «Io quei morti in mare li ho visti. E i tedeschi sparavano ai sopravvissuti». Le tre raffiche portano tutti indietro, a quel settembre del '43, quando l'uva era matura e i camion scaricavano i prigionieri italiani alla fine del viale degli eucalipti. Figli e nipoti sostengono i vecchi. «Io vorrei avere un'ora in più, su questa isola», dice il sottotenente Nicola Russigno. «Quando i tedeschi mi presero, io non consegnai loro la pistola. L'avevo nascosta in un bosco, perché speravo di riprenderla, di vendicare la strage. So dov'è e vorrei portarla a casa, la mia Beretta, ricordo di quei giorni». E delle notti in cui, nella vicina Itaca, si guardavano i fuochi di Cefalonia, senza sapere che si stavano bruciando dei soldati italiani.
La Repubblica
2 marzo 2001 


Cefalonia, la strage chiede ancora giustizia
Da alcuni mesi l’attenzione dell’opinione pubblica intorno ai fatti di Cefalonia e Corfù sta crescendo senza interruzioni. Il film, tratto dal discusso romanzo di De Bernière, le scoperte d’archivio sui silenzi italiani, l’uscita dell’argomentato libro di Alfio Caruso e l’annunciata visita del Presidente Ciampi sui luoghi dell’assassinio hanno riportato alla ribalta la scelta degli uomini della Divisione Acqui, che dopo l’8 settembre 1943, in mezzo a ordini contraddittori e con il desiderio di ritornare a casa, rifiutarono le intimazioni tedesche di resa e combatterono con coraggio contro la Wehrmacht e gli Stukas, aspettando dalla non lontana Brindisi aiuti che non sarebbero mai arrivati. I militari tedeschi, applicando con triste zelo un ordine proveniente da Berlino, compirono «una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del conflitto armato» (sono parole di Telford Taylor, pubblico ministero al processo di Norimberga), fucilando dopo la resa circa seimila soldati italiani, tra cui quasi tutti gli ufficiali sopravvissuti. Il 16 dicembre scorso è partita da Acqui Terme, città che in memoria di quella Divisione organizza dal 1968 senza clamori il Premio Acqui Storia, una raccolta di firme che chiede alle nostre istituzioni di compiere i passi necessari affinchè la Germania riunificata riconosca il crimine compiuto dai soldati della Wehrmacht (non erano coinvolte SS nè Gestapo: questo spiega molti silenzi del dopoguerra) e offra le scuse ai reduci sopravvissuti e ai familiari delle vittime. L’iniziativa, che richiede a tutti l’obbligo morale di evitare le strumentalizzazioni a fini politici, è nata grazie all’idea dei due giovani membri acquesi della Giuria dell’Acqui Storia e grazie alla partecipazione attenta di Marcello Venturi e Alfio Caruso. I reduci e i loro familiari, che mi hanno già contattato da tutt’Italia per firmare e far firmare (da Roma, Trieste, Fidenza, Rieti...) sono il motore che spingerà questa petizione verso il traguardo delle 11.700 firme. Nel 1969 il cancelliere Willy Brandt si inginocchiò a Varsavia davanti al monumento a ricordo degli ebrei trucidati dai suoi connazionali, chiedendo scusa (lui avversario del nazismo e gigante europeo della democrazia): molti si commossero, nessuno pensò che fosse un atto semplicemente formale. Trent’anni dopo, con la stessa fiducia negli uomini che detengono ora a Berlino la responsabilità di rappresentare il popolo tedesco, da Acqui è partita una mobilitazione delle coscienze che possa riguardare tre generazioni di italiani e di europei. Gentile signor Del Buono, io spero che lei possa aderire a questa petizione insieme a molti lettori della sua rubrica: invierò a tutti coloro che mi contatteranno i fogli già preparati per raccogliere le firme. dott. Enrico Severino, Acqui Terme 

LA RISPOSTA di O.d.B.
GENTILE Enrico Severino, aderisco senz’altro. Al di là della sua necessità ed equità, una iniziativa simile serve anche a tenere vivo il senso della Storia.
Oreste del Buono
La Stampa
Martedì 9 Gennaio 2001


ECCIDI Avviata la raccolta di firme per ottenere dal governo tedesco un atto formale che renda onore ai soldati italiani trucidati nell’isola greca nel ’43. Intanto emergono i verbali di un’istruttoria archiviata
CEFALONIA:  11.700 motivi per chiedere scusa
di AURELIO LEPRE
L’armistizio dell’8 settembre 1943 mise gli ufficiali e i soldati italiani, soprattutto quelli che si trovavano all’estero, in una situazione drammatica. Non furono, infatti, impartiti ordini; fu detto solo, nell’annunciare l’armistizio, che le truppe avrebbero reagito con le armi contro eventuali attacchi, da qualsiasi parte fossero venuti. L’isola di Cefalonia era presidiata dalla divisione Acqui. La notizia dell’armistizio colse i suoi uomini di sorpresa. Fino ad allora l’attività di presidio non aveva comportato impegni militari gravosi. 
Il volto feroce della guerra si rivelò d’improvviso, nel momento in cui si apriva una speranza di pace, e la morte venne da parte di coloro che, fino a quel momento, erano stati considerati alleati. Per questo, l’eccidio di Cefalonia può essere visto come uno di quei fatti che rivelano, di tanto in tanto, la tragica ironia della storia. 
La divisione Acqui era sola, in un territorio diventato improvvisamente nemico. In condizioni difficilissime, 11.700 uomini dovettero compiere una scelta. Erano stati abituati, quei soldati, a obbedire agli ordini; le circostanze li costrinsero a scegliere senza avere nessun altro punto di riferimento che il proprio senso dell’onore. 
Avevano giurato fedeltà al re e mantennero fede al giuramento, nonostante fossero stati abbandonati a se stessi. 
I cinquemila, tra ufficiali e soldati, fucilati dopo essere stati imprigionati, furono vittime di una strage che violava ogni legge di guerra, perché non vennero uccisi in battaglia, ma quando si erano già arresi. 
L’eccidio di Cefalonia può essere perciò paragonato a quelli commessi contro i civili disarmati a Marzabotto, alle Fosse Ardeatine, a Civitella Val di Chiana. 
I morti di Cefalonia sono rimasti a lungo dimenticati. Sarebbe però ingiusto dire che questa perdita di memoria è dovuta alla volontà di nascondere l’apporto dei monarchici alla lotta contro il nazismo. Gli storici della Resistenza hanno ricordato non solo l’attività delle loro formazioni, ma anche il contributo di conoscenze tecniche, spesso fondamentale, che gli ufficiali rifugiatisi sulle montagne diedero ai primi reparti partigiani. 
Sono rimaste, invece, nell’ombra le vicende delle centinaia di migliaia di militari che al momento dell’armistizio si trovavano oltre le frontiere. La loro storia è ancora tutta da scrivere. Intanto, è giusto ricordare il sacrificio della vita che gli uomini dell’Acqui offrirono all’Italia nel tragico settembre del 1943. 
Corriere della Sera
19.12.2000 


«Insabbiammo la strage di Cefalonia»
ROMA — La strage di Cefalonia, nella quale nel settembre 1943 furono massacrati dalle truppe tedesche 6.500 soldati italiani, fu insabbiata nell'autunno del 1956 in nome della ragione di Stato. Lo riconosce il senatore a vita Paolo Emilio Taviani, 88 anni, all'epoca ministro democristiano della Difesa, in un'intervista che appare oggi sul settimanale «L'Espresso». 
A Cefalonia i soldati della divisione Aqui furono selvaggiamente massacrati dopo essersi arresi. L'ordine, impartito da Hitler, venne eseguito con determinazione inumana. «È stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato», disse il rappresentante dell'accusa al processo di Norimberga. Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti si batterono perché i 31 militari tedeschi responsabili di quell'eccidio venissero processati. Ma la politica non permise di arrivare al processo. Nell'ottobre del 1956 Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrisse a Taviani, ministro della Difesa, proponendogli in sostanza l'affossamento di ogni percorso di giustizia. E ciò in nome della risurrezione della Wehrmacht, cioè dell'esercito tedesco, necessario alla Nato in funzione anti-Urss. Taviani pose una sigla di assenso sulla lettera di Martino. E oggi non intende «minimizzare»: «Il mio consenso — ammette — contribuì certamente a creare» quella che il settimanale definisce «la sepoltura della giustizia». Sottolinea tuttavia che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise»: «In quei giorni l'Unione Sovietica stava invadendo l'Ungheria ... Aveva ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per l'orrendo crimine di Cefalonia avrebbe colpito l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo...». 
Dura la reazione della medaglia d'argento al valor militare Amos Pampaloni, uno dei pochi sopravvissuti alla strage: «Il senatore Taviani si dovrebbe solo vergognare. È da tempo che sapevo del suo tacito assenso sull'insabbiamento dell'inchiesta della magistratura militare sull'eccidio di Cefalonia, cosa che oggi rivendica quasi come un'azione meritoria compiuta in nome di una ragione di Stato a mio giudizio incomprensibile». «La cosa ancora più grave — ha detto ancora Pampaloni — è che negli anni Cinquanta non solo fu insabbiata la strage di Cefalonia, ma anche le inchieste di altri 690 crimini nazifascisti». Ma dell'insabbiamento di tali crimini Taviani non sa niente. «La tragedia di Cefalonia, orribile, feroce, inumana — dice — era stata provocata dalla guerra, era una coda della guerra, un qualcosa che era avvenuto tra militari. Ben diverso lo sterminio di civili, bambini, donne, vecchi, uomini, gente indifesa, uccisa spesso neanche per rappresaglia. No, io non detti quell'ordine, non l'avrei mai dato neanche per ragioni di Stato». 
La Nazione
10.11.2000


INCHIESTA
Il capitano Pampaloni: «Nel dopoguerra nessuno volle ascoltarci, nemmeno in Italia»
«La raccolta di firme per ricordare le migliaia di militari italiani massacrati a Cefalonia dalla Wehrmacht dopo l’8 settembre del ’43 è un atto importante, ma rimaniamo perplessi sulla sua efficacia». Amos Pampaloni e Marcello Venturi, per anni gli unici a conservare, attraverso strade diverse, la memoria storica di quell’episodio di guerra, uno dei primi della Resistenza, manifestano entrambi il loro pessimismo sulle reazioni dell’opinione pubblica e dei governi italiano e tedesco, ai quali è rivolto l’appello dei fautori della raccolta. Sono trascorsi 57 anni, troppi, senza che da parte delle istituzioni italiane fossero prese iniziative. E le scuse dei tedeschi, sollecitate nell’appello, per quel massacro compiuto contro militari inermi, avrebbero il sapore di una semplice formalità. Amos Pampaloni, fiorentino di 90 anni, era capitano d’artiglieria e fu lui a prendere l’iniziativa contro i tedeschi ordinando alla sua batteria di far fuoco. Lo conferma la motivazione della medaglia d’argento assegnatagli: «Fu il primo italiano a sparare contro i tedeschi e ad animare la Resistenza a Cefalonia». Dopo la resa, messo al muro dai nemici per essere fucilato insieme ad altri commilitoni, rimase ferito e si salvò fingendosi morto. Venne aiutato dagli abitanti dell’isola che lo curarono e lo misero in contatto con i partigiani. «Sono anni che i reduci di Cefalonia chiedono al governo di ottenere almeno la Croce di cavalieri al merito come quella di Vittorio Veneto assegnata ai combattenti della Prima guerra mondiale - dice amareggiato - ma i ministri e i parlamentari li hanno sempre ignorati. Ormai è tardi per far qualcosa». 
Marcello Venturi, scrittore e storico, fu il primo, con il suo libro Bandiera bianca a Cefalonia , pubblicato nel ’63 da Feltrinelli, a descrivere quel massacro. «Mi occupai di Cefalonia dopo aver letto un articolo di Pampaloni - racconta -; mi recai sull’isola e riuscii a ricostruire quel drammatico episodio». Dopo quell’opera, su Cefalonia è ripiombato il silenzio fino a quando, la scorsa estate, una troupe americana si è recata nell’isola dello Jonio per girare un film ispirato a un romanzo dello scrittore inglese Louis De Bernière. Il libro, Captain Corelli’s mandolin (pubblicato in Italia da Longanesi col titolo Una vita in debito ), ricostruisce quell’episodio descrivendo gli italiani con i luoghi comuni cari a certi inglesi: poco coraggiosi, amanti della musica e delle donne. 
«È servito però ad attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica su quella tragedia», afferma Venturi. Infatti ne hanno parlato i giornali; la Rai ha trasmesso alcuni servizi e pochi mesi dopo è uscito il libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi), che descrive nei particolari il dramma dei militari italiani nell’isola. Proprio nel corso della presentazione ad Acqui Terme dell’opera di Caruso, è nata l’iniziativa di presentare la petizione per la raccolta delle 11.700 firme, un numero che corrisponde ai militari della divisione «Acqui» di stanza a Cefalonia. 
La battaglia era scoppiata il 13 settembre dopo che il comando tedesco aveva imposto agli italiani di cedere le armi. C’erano stati alcuni giorni di trattative promosse dai tedeschi, il cui presidio si trovava in difficoltà per scarsità di effettivi (uno a dieci rispetto agli ex alleati) e mezzi. In un primo tempo gli italiani, comandati dal generale Gandin, manifestarono incertezza soprattutto perché da Badoglio era arrivato l’ordine generico di non cedere, mentre il comando di Atene aveva ordinato di arrendersi. Gli scontri scoppiarono perché, nonostante le trattative in corso, i tedeschi incominciarono a fare affluire rinforzi proprio quando Gandin aveva ordinato alle sue truppe di abbandonare le posizioni strategiche. La resa avvenne dieci giorni dopo: gli italiani caduti nei combattimenti furono 1300 e più di 6000, compreso il comandante, vennero massacrati dalla Wehrmacht, nonostante avessero deposto le armi. Soldati con le mani alzate uccisi a colpi di mitragliatrice; centinaia di feriti scaraventati fuori dagli ospedali e trucidati. Degli scampati, circa 3000 morirono nelle stive delle navi affondate dalle mine durante il trasporto al Pireo. 
L’eccidio fu voluto dal generale Hubert Lanz, comandante dell’armata tedesca dell’Epiro, che in seguito si giustificò affermando che l’ordine venne direttamente da Hitler. 
A 57 anni da quel massacro le migliaia di vittime non hanno ancora ottenuto giustizia. Di Cefalonia si occupò il Tribunale di Norimberga ma solo perché Lanz comparve come imputato per altri crimini commessi nell’Epiro. Nelle sue deposizioni piene di falsità, il generale definì i militari italiani non combattenti, ma «ribelli» e «franchi tiratori» che andavano quindi fucilati. Fu poi la Procura generale di Dortmund a occuparsi dell’eccidio con un’istruttoria aperta dopo l’uscita del libro di Venturi. Il procuratore di Stato Nachtweh ascoltò 231 testimoni, tutti tedeschi tranne due italiani, Venturi e il cappellano militare Ghilardini, e due greci. Dopo quattro anni, nel ’69 fu emanata la sentenza di archiviazione. Pochi giorni prima il quotidiano tedesco Die Welt aveva criticato duramente il libro di Venturi definendolo «la solita falsa campagna contro l’esercito tedesco». Ma se l’archiviazione di Dortmund venne data per scontata, è sconcertante il fatto che in Italia non ci furono reazioni. La nostra magistratura si era mossa prima, ma in senso contrario. L’unico atto giudiziario su Cefalonia era stato promosso nel ’54 per iniziativa di Roberto Triolo, un giudice genovese che aveva perso il figlio in quell’isola. In seguito alle pressioni del magistrato, dopo una lunga vicenda giudiziaria, la Procura militare nel ’57 chiese il rinvio a giudizio di Pampaloni e di altri ufficiali italiani per aver compiuto atti ostili contro i tedeschi e aver quindi provocato la loro reazione. Ma alla fine prevalse il buonsenso e il giudice istruttore prosciolse gli imputati. 
«L’ex ministro Taviani ha spiegato recentemente che il governo tacque per non irritare la Repubblica federale tedesca, alleata preziosa durante la Guerra fredda - ricorda Venturi -. Ma secondo quella logica non avrebbero dovuto essere ricordate neanche le vittime delle Ardeatine, di Marzabotto e di Sant’Anna di Stazzema». 
Ettore Vittorini 
Corriere della Sera
19.12.2000


La Bandiera di Venturi vittima di un plagio 
Dopo l’armistizio, nel settembre ‘43, la Divisione Acqui che presidiava l’isola eolia di Cefalonia, fu sterminata dalle truppe germaniche per avere gli italiani rifiutato la resa incondizionata. I militari trucidati — erano artiglieri — furono più di novemila. E’ stata una delle pagine più drammatiche della nostra sconsiderata storia bellica, ma fu anche quella meno ricordata a fronte di altri eventi del tempo, incluso quello partigiano, quasi che l’essere stati uccisi con le stellette sulla divisa gravasse come un’onta sull’intero esercito italiano.
Un regista americano, John Madden, si è ora ripromesso di ricavarne un film, con due noti attori protagonisti: Nicholas Cage e Penelope Kruz. Gli elementi per imbastire la trama li ricaverà da un autore inglese, Louis De Bernieres, che sta ottenendo vasto successo con un libro: "Il mandolino del capitano Corelli", se tradotto in italiano. Purtroppo, già il titolo, particolarmente irridente, dà la misura dei luoghi comuni che perseguitano gli italiani nel resto del mondo: una chitarrata, "o sole mio", una pizza, e il gioco è fatto: puoi anche andare "a farti morì ammazzato". 
C’è pure un’ombra di plagio in una vicenda sentimentale che molto ricorda quella analoga del capitano Aldo Puglisi con Caterina Pariotis nella rievocazione, proposta con precisa documentazione e sofferta partecipazione, da Marcello Venturi in "Bandiera bianca a Cefalonia", Pubblicato nel 1963, questo libro ebbe immediato successo e fu tradotto in quattordici lingue. Nulla in esso fu nascosto: dallo sbando di migliaia di uomini lasciati in balia di se stessi — qui come in altri innumeri fronti e negli stessi confini della patria — all’estenuante tergiversare degli alti comandi che favorirono le spietate soluzioni finali decise dall’ex alleato. Ma proprio per questo suo crudo realismo, che aveva anche attirato le attenzioni di Simone Wiesenthal, si giocò al nascondino perché la bruciante verità non pareva consona con l’opportunismo politico, almeno in quel periodo.
Ora questo libro è ricomparso nella collana: "Ventesimo Secolo. La Storia e gli Scrittori" della casa editrice "Le Mani" di Recco. La stessa collana, diretta da Francesco De Nicola, che ha già pubblicato opere di Giovanna Zangrandi, Liana Millu, Elena Bono, ha pure riproposto "Combattere con le ombre" di Nelio Ferrando, la cui prima edizione è del 1949.
L’autore genovese, colto in Grecia dall’armistizio — era tenente di fanteria — e rinchiuso in diversi lager tedeschi, ha descritto dal vivo questa situazione sua e dei suoi colleghi d’arma, in pagine che restano testimonianza dell’assurdità della guerra, delle sue atrocità, alle quali solo si sopravvive nel nome della propria dignità e della propria libertà interiore. Anche qui, come pure è accaduto per la drammatica vicenda di Cefalonia, il sottile filo dei sentimenti lega due vite, quella di Alberto e di Fula, quasi a ricordare che il volersi bene, nel segno della comprensione e della solidarietà, non ha confini territoriali. Sono pagine delicatissime, con un uso della buona lingua — qui, come in Venturi — della quale si rischia oggi di perdere ogni fragranza, che delineano anche psicologicamente figure palpitanti e solo in apparenza fragili. Sono due libri, dunque, che vivono anche nel segno dell’arte e non solo perché da considerare classici della letteratura di guerra.

Piero Pastorino
Marcello Venturi: Bandiera bianca a Cefalonia. Prefazione di Sandro Pertini. Introduzione di Francesco De Nicola. Le Mani, Recco 2000, pagine 248, lire 25 mila.
Nelio Ferrando: Combattere con le ombre. Prefazione di Giovanni Descalzo. Introduzione di Pino Boero. Le Mani, Recco 2000, pagine 130, lire 22 mila.
La Repubblica
19.12.2000


Le cifre del massacro
Nel settembre del 1943 la divisione "Aqui" – dislocata nelle isole greche di Cefalonia, Corfù, Zante ed altre minori – era composta da circa 12mila uomini. I combattimenti – durissimi – iniziarono il 13 settembre. Il 23 settembre, dopo la resa, si contarono oltre 1.300 caduti in combattimento. Più di 6mila – compreso il generale Gandin – furono massacrati successivamente dalla Wehrmacht nonostante avessero deposto le armi. Degli scampati circa 3mila morirono nelle stive delle navi affondate durante il trasporto al Pireo. Gli altri vennero dapprima condotti nel campo denominato "Marginot" di Atene e poi deportati nei lager di Muhlberg, Munster, Slonim e, soprattutto, Zeithan: molti non sono tornati. Di essi padre Luca M. Ayroldi catturato a Corfù dopo l’otto settembre e deportato in Germania nel campo C di Zeithan in Sassonia scrive nelle sue memorie: (…) "Morte di inedia! E’ la pura verità, anche se nelle cartelle cliniche veniva scritto TBC polmonare; questa era la conseguenza ultima della gran fame patita. E tutti i ricoverati del campo C furono vittime di quel male… Unico rancio insufficiente, l’umidità delle baracche sconquassate, la febbre in continuo aumento, l’impossibilità di soddisfare la sete…tutto seminava disperazione desolazione e morte! In Zeithan 900 soldati sono morti in meno di due anni, Zeithan è il campo della morte, da cui i nostri caduti invocano ancora il nome dell’Italia"(…). 

Bibliografia
Per chi fosse interessato a saperne di più sull’eccidio di Cefalonia e sulla sorte dei nostri soldati nei lager nazisti allego la bibliografia.
Giuseppe Moscardelli - 1945 
Don Romualdo Formato - L’eccidio di Cefalonia – 1946 (ristampa Ed. Mursia 1968) 
Don Luigi Ghilardini - I martiri di Cefalonia – 1962 
Marcello Venturi - Bandiera bianca a Cefalonia - Feltrinelli 1963 
Louis De Bernière - Captain Corelli’s mandolin (in italiano "Una vita in debito" Longanesi) 
Alfio Caruso – Italiani dovete morire – Longanesi 2000 
De Bernart - Da Spalato a Wietzendorf: 1943/43 (Storia degli internati militari italiani) Ed. Mursia 
Melodia G. - La quarantena (Gli italiani e gli altri nel lager di Dachau) Mursia Ed. 
Reviglio A. – La lunga strada del ritorno (l’odissea dei soldati italiani internati nella Germania nazista) Mursia Ed. 

Grazia Perrone
in : www.pavonerisorse.to.it/storia900/strumenti/cefalonia.htm


Quei giorni di Cefalonia

Arriva venerdì 25 maggio I giorni dell'odio e dell'amore-Cefalonia del regista veneto Claver Salizzato con Daniele Liotti, Mandala Tayde, Ricky Tognazzi e Ugo Pagliai.  

di Betty Giuliani

ROMA - L'eroica resistenza della Divisione Acqui, massacrata dai tedeschi dopo l' 8 settembre, è una strage dimenticata, come molti altri tragici episodi della nostra storia più o meno recente. Una ventata di memoria però sembra soffiare dal cinema, strano a dirsi anche quello italiano, votato quasi esclusivamente (salvo rare e per fortuna valide eccezioni) alla commedia.

A rinfrescarci la memoria sulla strage di Cefalonia che tra il 13 e il 22 settembre del '43 costò la vita a quasi diecimila soldati italiani, dopo che in marzo è tornata di attualità sulle prime pagine dei quotidiani, arriva venerdì 25 maggio nelle sale distribuito dalla Columbia il film I giorni dell'odio e dell'amore - Cefalonia del regista veneto Claver Salizzato con Daniele Liotti, Liberto Rabal, Mandala Tayde, Ricky Tognazzi, Ugo Pagliai e Francesco Venditti. L'autore si è a lungo documentato sugli episodi, su quella battaglia, con l'aiuto di uno dei pochi sopravvissuti: il friulano Olinto Perosa, 80 anni il prossimo 28 maggio, che ha scritto il libro Divisione Acqui figlia di nessuno, memorie di un fante superstite. Battendo sul tempo gli americani, che sulla tragica vicenda stanno per sfornare Il mandolino del capitano Corelli diretto dall'inglese John Malden con Nicolas Cage, in attesa dell'arrivo di Texas '46 di Giorgio Serafini ambientato nel campo di concentramento di Hereford (in cui finirono centinaia di soldati italiani catturati in Africa), mentre Enzo Monteleone si prepara a girare in autunno il suo El Alamein, Salizzato ridesta col suo film due importanti vicende del nostro recente passato storico e politico: l'accordo tra Mussolini e Hitler per spartire chirurgicamente gli abitanti del sud Tirolo facendo loro scegliere se restare in Italia, perdendo la propria identità etnica, o passare in Germania lasciando terra, parenti e amici, e lo sterminio dei nostri soldati abbandonati sull'isola più grande dell'arcipelago Ionio dopo l'armistizio con gli angloamericani, che scelsero di non cedere le armi agli ex alleati tedeschi e furono massacrati su diretto ordine di Hitler.

"Questo film è dedicato ai caduti dimenticati della divisione Acqui che hanno combattuto senza speranza e sono stati masacrati per la dignità del loro paese - dice il regista - e a tutti i senza patria perché possano un giorno non lontano ritrovarla e riannodare così i fili delle proprie radici offese". Per girarlo ha avuto a disposizione solo il fondo di garanzia e il produttore Enzo Gallo della Metropolis Film gli ha dato il via senza alcun'altra copertura finanziaria, neppure televisiva. La Rai ci ha però ripensato, acquistandone pochi giorni orsono i diritti. E il film, che ha un taglio molto televisivo, sarà ben gradito dal pubblico del piccolo schermo, nutrito a suon di fiction.

Delle tre versioni montate Salizzato ha scelto di portare sullo schermo quella che parte non dalla battaglia ma da una storia che, per tutto il primo tempo del film e per la gioia degli amanti del melò, dà ampio spazio ai sentimenti dei due fratelli sudtirolesi Wolfgang (Liotti) e Helberg (Rabal). Per il patto di autodeterminazione scelgono il primo di restare in Italia, il secondo la Germania, portandosi dietro anche la bella moglie del fratello (Mandala Tayde, attrice dai tratti somatici più indiani che sudtirolesi, ma "voluta" dai distributori del film). Si ritroveranno a combattersi su fronti opposti.

"A Cefalonia si sono combattuti tra fratelli - spiega il regista - nel senso che i tedeschi fino ad allora erano i più fidati compagni d'armi dei soldati italiani. Ho voluto simbolizzarlo nella figura dei due fratelli, non volevo essere fedele a null'altro che agli episodi". "Forse mi giudicheranno un eroe o magari un traditore, ma siamo soltanto uomini soli che hanno dovuto decidere del loro destino" dice nel film un convincente Ricky Tognazzi con indosso la divisa del generale Antonio Gandin, comandante della divisione. "Il mio è un ruolo piccolo ma significativo - spiega l'attore - in una storia importante che spero sia ricordata. Il cinema deve fissare la memoria degli spettatori. Io conoscevo questo momento particolarmente tragico della storia italiana perché dovevo partecipare a un altro progetto che non è più andato in porto. Fu il primo momento vero di coscienza civile collettiva di un popolo defraudato ma con una forte volontà di affermazione di sé. E' un paradosso straordinario che la coscienza collettiva si manifesti attraverso un massacro".

Se avesse diretto lui questo film lo avrebbe fatto in modo diverso: "E' indubbio, ma qui ho fatto solo l'attore - precisa Tognazzi - ho dovuto rendere l'autorità e allo stesso tempo l'umanità di un personaggio". E c'è riuscito. E' invece discutibile la scelta del regista di sacrificare la parte storica alla parte sentimentale, soprattutto nel primo tempo. "E' stata scelta una strada metaforica e simbolica per raccontare la tragedia di un conflitto incivile che ha lacerato le famiglie - risponde l'attore -. I modi di affrontare una storia sono molteplici, ognuno sceglie la sua, si porta la propria croce".

(25 MAGGIO 2001, ORE 16:15)

Dal sito: http://www.ilnuovotg.it/nuovo/foglia/0,1007,51211,00.html


I giorni dell'amore e dell'odio, dedicato ai caduti della divisione Acqui a Cefalonia dopo l'8 settembre 1943

I giorni dell'amore e dell'odio racconta del conflitto tra due fratelli del sud Tirolo che nelle opzioni concordate da Mussolini e Hitler si dividono: uno si trasferisce in Germania, l'altro si sente italiano. Di mezzo c'è anche una donna (Mandala Tayde), che sposerà l'italiano ma fuggirà con il tedesco. I due fratelli si incontreranno proprio a Cefalonia, l'uno contro l'altro in un duello 'western' non solo simbolico.
"Oltre ad essere arrivati prima, noi siamo stati fedeli agli episodi, ai fatti. Alla base del mio film -dice Salizzato, già collaboratore di Sergio Leone cui il film, con Alessandro Blasetti, è dedicato - c'è un'accurata ricerca negli archivi dello Stato maggiore dell'esercito, ci sono alcuni libri come 'Bandiera bianca a Cefalonia' di Venturi, molto più bello di quello dal quale è stato tratto 'Corelli', e soprattutto la consulenza dei reduci".
Il film di Salizzato inoltre ha avuto, a differenza di quello di Madden, l'appoggio sulla sceneggiatura dell'Associazione nazionale reduci e famiglie dei caduti della divisione 'Acqui' e la collaborazione di Olinto Perosa, 80enne reduce di Cefalonia che su quegli eventi ha anche scritto un libro. "Il film è fedele -assicura Perosa- e racconta anche degli episodi inediti, come quello in cui il generale Grandin (Ricky Tognazzi, ndr) chiede agli stessi soldati, con un referendum, se arrendersi ai tedeschi o continuare a combattere. Anche per questo rappresenta un fatto storico importante". Aggiunge Ricky Tognazzi: "Conoscevo questa pagina di storia, meno nota di quella che dovrebbe essere. Il cinema dovrebbe tentare di fissare la memoria. Io non ho vissuto la guerra, e questa è una storia giusta da raccontare". Appello chiaramente accolto da Salizzato, che anticipa il film che Enzo Monteleone sta preparando su El Alamein, altra pagina nera della storia. "C'è stata una rimozione collettiva da parte del giovane cinema italiano della storia -dice Salizzato- L'80% dei nostri film sono commedie, o storie che non riescono a guardare a più di cinque centimetri dall'ombelico: il cinema italiano ha rimosso la storia".

(25 maggio 2001)

Dal sito: http://kwcinema.play.kataweb.it/templates/kwc_template_3col/0,5271,117230-20,00.html


CEFALONIA: VERITA' "USA" E GETTA


Giovedì 24 Maggio 2001
di Daniela Cannizzaro

L’8 settembre 1943 la Divisione Acqui, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presiede le isole di Cefalonia e Corfù agli ordini del Generale Antonio Gardin. Il capovolgimento di fronte li obbliga a una confronto diretto con le truppe tedesche di stanza nella zona. Tenere fede all’Armistizio significa per loro: cedere le armi o resistere. Con estremo coraggio, il 15 settembre, l’esercito italiano si impegna in una battaglia che si protrae per un settimana senza esclusione di colpi, compreso l’intervento aereo degli Stukas, cacciabombardieri tedeschi.
La storia ricorda quei giorni, come i più sanguinosi di tutto il secondo conflitto mondiale. Segnati dall’indomita resistenza della Divisione Acqui contro i tedeschi e dalla conseguente reazione dell’esercito di Hitler.
A Cefalonia morirono 9.500 soldati e 390 ufficiali. Tragici eventi che non si dimenticano.
Il mandolino del Capitano Corelli - Captain Corelli’s Mandolin, film prodotto e interpretato da Nicolas Cage ne è una testimonianza. Ma non è l’unica. Il regista Claver Salizzato ha infatti realizzato una trasposizione cinematografica tutta italiana del sanguinoso conflitto di Cefalonia. Si tratta de I giorni dell’amore e dell’odio, interpretato, tra gli altri, da Daniele Liotti, Liberto Rabal, Francesco Venditti, Ricky Tognazzi, Riccardo Salerno e Ugo Pagliai.
Il mandolino del Capitano Corelli, coproduzione franco, anglo- americana, è diretto da John Madden (Shakespeare in Love) ed è liberamente ispirato al romanzo scritto da Louis de Bernieres.
Il film seguirà nelle sale italiane l'uscita de I giorni dell’amore e dell’odio. Una precedenza di diritto, che fa particolarmente onore a Salizzato.
E mentre Nicholas Cage sarà protagonista della travolgente storia d’amore tra un soltato italiano e un bellezza isolana (Penelope Cruz), decisamente più conflittuale si preannuncia il film italiano. Che con una (consapevole?) vena pacifista inserisce all’interno della vicenda bellica un ulteriore scontro fratricida.
Il film, prodotto dalla Metropolis Film, con il contributo del Dipartimento dello Spettacolo, sarà distribuito nelle sale dalla Columbia.
Durante la più accesa delle battaglie del secondo conflitto mondiale è necessario fare i conti con la Storia. Agli Usa, lasciamo volentieri le irresistibili attrazioni esotiche(?!).

Dal sito: http://www.cinemazip.it/SArticolo.asp?sarticoloID=134


Cinema: l'autore del libro difende La Cefalonia di Nicolas Cage
L''autore del bestseller sulla strage di Cefalonia 'Il mandolino del capitano Corelli' ha difeso l''omonimo film americano di John Madden con Nicolas Cage, in uscita in Europa. Dopo le stroncature della critica alla prima del film a Londra, Louis de Bernieres ha affermato che 'si e'' superato il limite' e sono state espresse riserve 'del tutto irragionevoli'. 'Io credo che sia stato colto lo spirito del libro, in particolare nella scena del massacro dei giovani italiani', ha spiegato de Bernieres, che ha assistito personalmente alle riprese del film in Grecia. Lo scrittore ha promosso anche il protagonista, Cage: 'Corelli me lo immaginavo piu'' piccolo e vivace, lui e'' alto e misurato: ma quando gli ho visto interpretare alcune scene l''ho trovato assolutamente adatto'.
'Il mandolino del capitano Corelli' arrivera'' in Italia dopo l''estate. Attualmente e'' in uscita un altro film sulla strage di Cefalonia, 'I giorni dell''odio e dell''amore' dell''italiano Claver Salizzato.

Dal sito: http://www.ticinonews.ch/info/notizie/991026742/ticinonews.html


10/4/2001
Louis de Bernières, Il mandolino del capitano Corelli

E’ una storia di guerra e d’amore quella raccontata da Louis de Bernières ne Il mandolino del capitano Corelli che Guanda ripubblica a poche settimane dall’uscita del film di John Madden con Nicholas Cage e Penelope Cruz. Durante la seconda guerra mondiale, sullo sfondo della campagna di Albania e Grecia — condotta da un esercito italiano male armato e impreparato —, si intrecciano le vicende di un soldato omosessuale, di un capitano che vive per la musica, di un medico saggio e della figlia caparbia, di un pescatore che diventa comunista e partigiano, di una vecchia madre che riscopre la vocazione matriarcale nei confronti di una famiglia non sua e di altri personaggi che tratteggiano un affresco vivace. Il romanzo di de Bernières — che ha avuto il merito di riscoprire la tragedia di Cefalonia — consente al lettore di sorridere e commuoversi al tempo stesso.
La Cefalonia del romanzo sembra un’isola immutata dal tempo degli dei, dove pescatori e pastori compiono gli stessi gesti degli avi e degli avi degli avi. La guerra è lontana, poco cruenta anche dopo l’occupazione italiana. L’amore che nasce — pur tra mille difficoltà e con la consapevolezza che divide oppressi e oppressori — tra la bella Pelagia e il capitano innamorato della musica non deve quindi sorprendere. In loro sono stati identificati una ragazza cefallena e un soldato cremonese, ma le storie d’amore simili devono essere state numerose.
Ma l’ottusità della guerra è in agguato, con la sua ferocia e le sue leggi spietate. Dopo l’8 settembre del ’43, i soldati italiani a Cefalonia decidono di non cedere le armi ai tedeschi, ex alleati diventati nemici. Sarà un eccidio, un eccidio di cui solo oggi si comincia a parlare e che la storia ufficiale ha troppo a lungo dimenticato. Ed è curioso che la tragedia di Cefalonia, pur con le imprecisioni consentite a un romanzo, abbia ispirato uno scrittore inglese e successivamente una produzione cinematografica internazionale.
Louis de Bernières, Il mandolino del capitano Corelli, traduzione di Roberta Rambelli, Parma, Guanda 2001, pagine 455, lire 28mila.

Dal sito: http://www.cremonaonline.it/contenuti/257_37899.html


Da Cefalonia alle Ande

C’è un legame tra le due prossime missioni di Ciampi: la cattiva coscienza dell’Italia

Giovedì 1° marzo Carlo Azeglio Ciampi andrà a Cefalonia per rendere omaggio agli oltre 9 mila soldati italiani della divisione Acqui uccisi dai tedeschi nel settembre 1943. Il 10 marzo partirà per l’Argentina. Due viaggi di Stato, certo, con l’inevitabile contorno di ufficialità protocollare e spontaneità non sempre genuina. Ma stavolta queste visite avranno qualcosa di particolare da dire, qualcosa che potrebbe realmente parlarci nel profondo, se avremo voglia di distrarci un attimo dalla bagarre elettorale.

C’è un legame tra le due missioni di Ciampi: la cattiva coscienza dell’Italia. A Cefalonia il presidente della Repubblica non dovrà tanto, come sostengono alcuni, chiedere le scuse della Germania. Dovrà soprattutto chiedere idealmente perdono a nome dell’Italia: un Paese che per cinquant’anni ha relegato in un angolo il crimine più sanguinoso mai commesso in guerre recenti su propri soldati.

I militari della Acqui vennero sterminati dalla Wehrmacht perché l’otto settembre l’Italia si era arresa agli americani, perché nel caos prodotto dalla fuga di Pietro Badoglio e dei Savoia il contingente restò sull’isola senza ordini e senza difesa, perché non volle cedere le armi agli ex alleati tedeschi. Ma quei militari vennero poi cancellati dalla memoria nazionale perché, in quando soldati fedeli al re, non erano ascrivibili all’ideologia della Resistenza dominante per decenni.

Di questa straordinaria rimozione sono stati forniti altri motivi, di ragion di Stato. Paolo Emilio Taviani, negli anni Cinquanta ministro della Difesa per la Dc, ha detto che la sordina servì a non compromettere i legami militari con la Germania nella Nato. In questi giorni affiora un’altra spiegazione: erano in gran parte tirolesi (come spesso accadeva nella Wehrmacht per le operazioni più sanguinose) gli uomini della divisione Edelweiss che compì la strage di Cefalonia. Alcuni ufficiali avrebbero formato il primo nucleo dirigente della Südtiroler Volkspartei, partito strategico fin dal dopoguerra per la questione dell’Alto Adige.

Fatto sta che per decenni sono cadute nell’oblio tutte le memorie di parte italiana, a cominciare dal romanzo Bandiera bianca su Cefalonia di Antonio Venturi del 1963. Ci volevano un libro inglese, Il mandolino del capitano Corelli, di Louis de Bernieres, e soprattutto un film di Hollywood con Nicolas Cage per rinfrescarci la memoria. Libro e film molto contestati dai nostri storici, o perché caricaturali o perché non politicamente corretti. Ma, a parte gli scampati alla strage, chi ha il diritto di criticare?

L’Italia non ha onorato quei militari così come usualmente non rende omaggio ai propri soldati. Quasi tutti i monumenti ai caduti risalgono al fascismo. Non abbiamo un Veteran day come in molti altri paesi. Un tempo si celebrava il 4 novembre, anniversario della Grande guerra. Poi parve sconveniente e la festa venne abolita. Oggi è stata riabilitata, ma è solo un giorno rosso sul calendario, buono per stare a casa o fare straordinari, nessuno studente (e forse neppure qualche professore) sa a che cosa si riferisce. C’è da stupirsi se della guerra si celebrano gli eroi civili, quelli della Resistenza, e mai i militari? Se non solo non si parla di Cefalonia, ma neppure di El Alamein, Vittorio Veneto, di Durand de La Penne, dei mas, perfino di Lepanto? Se non si scrivono libri né si girano film, tranne quelli in cui i nostri soldati appaiano come simpatici lavativi, bravi guaglioni dal cuore d’oro?

Dal sito: http://www.mondadori.com/panorama/capolitica/viaggi.html


ANNO 1943

LA FUCILAZIONE DEI QUATTROMILA SOLDATI italiani che presidiarono l'isola greca fino al giorno dell'armistizio (settembre 1943). Dopo la resa vennero passati per le armi dai tedeschi. 
Perché accadde?

LA VERITA' SULLA STRAGE DI 
CEFALONIA

di PAOLO DEOTTO

Cefalonia: isola greca del gruppo delle Ionie, a circa 250 km dalle coste italiane, superficie kmq. 752, abitanti 58.000. Cefalonia: tomba degli italiani. Così definita dai greci che, nel 1943, non avevano obiettivamente nessun motivo per volerci bene: eravamo invasori. Furono dunque i greci a scavare la tomba agli italiani? Ciò avrebbe avuto una sua logica, se di logica si può parlare quando ci si immerge nella situazione patologica che è comunque una guerra.
No: Cefalonia fu la tomba degli italiani ad opera degli alleati tedeschi, e ad opera di una serie sciagurata di circostanze, di responsabilità, di incredibili leggerezze. Nell'isola greca fu distrutta la Divisione Acqui, comandata dal generale Antonio Gandin, in uno degli episodi più brutali del secondo conflitto mondiale, e in particolare di quel periodo di tragica confusione che si creò, dopo le ore 18.30 dell'8 settembre 1943, quando gli Alleati comunicarono al mondo l'armistizio firmato dall'Italia a Cassibile cinque giorni prima, all'insaputa degli alleati tedeschi.

Cefalonia era stata occupata dalle truppe italiane il 1° maggio del 1941, nel quadro delle operazioni militari contro la Grecia. La forza di presidio, una parte della quale dislocata sull'isola di Corfù, era costituita dalla Divisione Acqui, da cui dipendeva anche il Comando Marina di Argostoli (il capoluogo), dotato di batterie costiere.
L'organico era di circa 11.000 uomini, e rimandiamo il lettore all'elenco dettagliato che può trovare in coda all'articolo, nel quale sono enumerati i diversi reparti che costituivano la divisione.
Tra il 5 e il 10 agosto del 1943 era sbarcato a Cefalonia anche un contingente tedesco di 2.000 uomini, al comando del tenente colonnello Hand Barge. Ufficialmente giunti di rinforzo ai commilitoni italiani, i soldati tedeschi erano stati in verità inviati da Hitler con precisi compiti di vigilanza, come in molte altre analoghe situazioni, facendosi sempre più tenue la fiducia del dittatore tedesco nei confronti del governo italiano che, giova ricordarlo, era da pochi giorni guidato dal maresciallo Pietro Badoglio, dopo la destituzione e l'arresto di Mussolini, avvenuti in seguito ai risultati della seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943.

Le manifestazioni pubbliche di giubilo avvenute dopo la caduta di Mussolini, la diffusa convinzione popolare che per l'Italia la guerra fosse finita, peraltro bloccata dalla doccia fredda del primo proclama di Badoglio (... "la guerra continua"... ) avevano acuito la tensione latente da tempo nell'alleanza tra Roma e Berlino. I tedeschi erano convinti (e i fatti avrebbero dato loro ragione) che gli italiani stessero cercando una pace separata.
Il generale Gandin manteneva però rapporti cordiali con i tedeschi, grazie anche alla croce di ferro conferitagli personalmente da Hitler nel precedente anno di guerra. Lo sbarco a Cefalonia dei sodati tedeschi non portò inizialmente nessun problema particolare alle forze di presidio italiane; il reparto del tenente colonnello Hand Barge restava gerarchicamente subordinato al comandante di divisione italiano, pur nel concetto tutto particolare che avevano i tedeschi di subordinazione nei confronti di superiori italiani.
Poi anche su Cefalonia arrivò la notizia dell'armistizio.

Dobbiamo riportarci un attimo a quei giorni se vogliamo meglio capire quello che avvenne. Nella seconda parte del 43 la guerra già volgeva al peggio per le forze dell'Asse. Il 3 settembre le forze alleate erano sbarcate a Reggio Calabria e a Villa San Giovanni, senza incontrare praticamente alcuna resistenza. Quello stesso giorno il generale Castellano firmava a Cassibile l'armistizio col generale americano Bedell-Smith, presente anche il generale Eisenhower.
Con rara abilità, i dirigenti politici italiani riuscirono a rendersi invisi sia agli alleati tedeschi, sia ai nemici anglo-americani, dei quali peraltro cercavano di conquistare la fiducia. La figura ambigua del maresciallo Pietro Badoglio, cresciuto all'ombra del "fascio" e divenuto capo del primo governo non fascista italiano da oltre vent'anni e i comportamenti confusi del Re, più preoccupato di salvare il salvabile della Casa, che dell'Italia, ingenerarono nei tedeschi un atteggiamento di sempre più stretta vigilanza, che si concretò nell'invio di forze ingenti attraverso il Brennero, con lo scopo preciso di disarmare le forze italiane quando si fosse verificato il temuto voltafaccia.

D'altra parte anche gli Alleati erano perplessi nei confronti delle nuove autorità italiane: Badoglio cercava di tenere disperatamente il piede in due scarpe, non volendo comprendere che comunque gli anglo americani non erano disposti a particolari concessioni verso l'Italia e illudendosi di poter ingannare i tedeschi.
La dichiarazione di guerra alla Germania, che peraltro non poteva avvenire senza il consenso del Re, avverrà solo il 13 ottobre; oltre un mese di tentennamenti e ambiguità verranno pagati duramente proprio da migliaia di soldati, lasciati senza ordini, alla mercé di un alleato, non ancora ex, inferocito, e da migliaia di civili, sottoposti ai duri bombardamenti che gli Alleati non risparmiarono all'Italia neanche durante le trattative che avrebbe portato appunto alla dichiarazione di guerra alla Germania.

Su Cefalonia arrivò l'8 settembre: un dispaccio radio della Stefani alle 19.45 comunicava quanto già comunicato dagli anglo-americani un'ora prima. Il generale Gandin, come molti altri comandanti, si trovò inizialmente senza direttive precise. Ordinò il coprifuoco e il pattugliamento dell'isola da parte delle truppe italiane; conosceva i tedeschi e sapeva che da un momento all'altro poteva arrivare la loro reazione. Il giorno successivo arrivò dal Comando di Armata di Atene l'istruzione di "reagire con la forza ad ogni violenza armata". Un ordine inutile, a ben vedere, essendo preciso dovere di ogni militare di "reagire con la forza a minacce armate", ma che la diceva lunga sulla confusione che iniziava a caratterizzare i comportamenti dei vertici italiani. Quel giorno stesso il Re e il Governo si spostavano da Roma a Brindisi. Si può parlare di trasferimento "in un altro punto del sacro e libero territorio nazionale", come recitò il proclama del Re da Brindisi, o si può parlare di fuga, termine più aderente a un trasferimento operato così in fretta da scordarsi di lasciare direttive alle forze armate.

La sera del 9 settembre il Comando di Armata di Atene inviò un nuovo radiogramma al generale Gandin, ordinandogli di cedere ai tedeschi le artiglierie e le armi pesanti della fanteria, in ottemperanza agli accordi intervenuti tra il Comando d'Armata e il Comando Superiore tedesco. In cambio i tedeschi si impegnavano a riportare in patria tutti i soldati italiani. Questo ordine contrastava con le clausole dell'armistizio e pertanto il generale Gandin scelse una tattica di attesa, confidando in un chiarimento da parte degli organi superiori. I tedeschi non forzarono i tempi, ma intanto fecero arrivare a Cefalonia diversi pezzi di artiglieria. Il generale Gandin era conscio del fatto che, pur in superiorità numerica, i suoi uomini potevano essere facilmente attaccati dall'aviazione tedesca, né poteva essere sicuro della compattezza dei suoi reparti, serpeggiando, soprattutto a livello di ufficiali subalterni, un clima di rivolta contro i tedeschi e, di conseguenza, di rivolta contro lo stesso Comando di Divisione, che stava cercando di prender tempo e di evitare ogni azione militare contro quelli che restavano comunque alleati.

Tra consultazioni con i cappellani della Divisione (che propendevano per la consegna delle armi al fine di evitare il temuto attacco tedesco) e riunione degli ufficiali superiori, il generale Gandin riuscì ad arrivare fino al 13 settembre con la situazione ancora in sospeso. Quel giorno la situazione di stallo ebbe il suo tragico sviluppo: a parte l'iniziativa autonoma del capitano Apollonio, che fece aprire il fuoco con le artiglierie contro due pontoni da sbarco tedeschi che doppiavano il Capo di San Teodoro (e che venne comunque a riconfermare i timori del generale Gandin sullo scollamento in atto nella Divisione), giunse dal Comando Supremo, finalmente risorto a Brindisi, l'ordine di "resistere con le armi alle pretese tedesche di consegna degli armamenti", a firma del sottocapo di Stato Maggiore, generale Rossi.
Incominciò la battaglia, con duemila tedeschi che non si esponevano al fuoco dei soldati italiani, lasciando agli Stukas il compito di martellare senza pietà le posizioni italiane. I soldati italiani resistettero fino al 22, giorno in cui il generale Gandin, che già aveva perso oltre duemila uomini, si decise a chiedere la resa. Da Brindisi, nonostante gli appelli radio dall'isola greca, non era giunto alcun aiuto, e un'iniziativa del contrammiraglio Galati che con due torpediniere, la Clio e la Sirio, aveva fatto rotta su Cefalonia per portare armi e medicinali era stata bloccata dall'ammiraglio inglese Peters, poiché le due navi erano salpate senza l'autorizzazione alleata.

Dal 22 al 25 settembre a Cefalonia si scatenò la vendetta tedesca: duemila soldati già avevano trovato la morte sotto i bombardamenti tedeschi e in combattimento. Altri quattromila furono fucilati, tra cui lo stesso generale Gandin, che buttò a terra con sdegno la croce di ferro tedesca prima di cadere sotto i colpi del plotone d'esecuzione. Nella terribile strage non mancarono i comportamenti particolarmente efferati, inutili crudeltà aggiuntive in un quadro generale di ferocia scatenata, con esecuzioni effettuate a colpi di mitragliatrice per risparmiare tempo.
Ma la tragedia sembrava non voler abbandonare la Divisione Acqui. Quando la rabbia tedesca fu placata e i soldati italiani superstiti vennero caricati su piroscafi per essere trasferiti nei lager, tre navigli incapparono in un tratto di mare minato. Altri tremila italiani perirono affogati.
Il macabro conteggio finale fu di 9.646 caduti, la quasi totalità della Divisione.
Dopo la guerra si scatenarono diverse polemiche sui tragici fatti di Cefalonia, che ebbero anche un seguito giudiziario (peraltro senza esiti) per gli episodi di insubordinazione che erano avvenuti, e di cui sopra accennavamo, con la ribellione di alcuni ufficiali subalterni che avevano assunto iniziative autonome dal Comando di Divisione. Purtroppo, secondo un inveterato costume nazionale, non mancò la corsa per appropriarsi di quei morti.

Francamente ci sembra che non valga neanche la pena di soffermarsi sul tentativo di inquadrare la strage di Cefalonia nel quadro della lotta partigiana, non foss'altro perché non esisteva ancora la minima struttura clandestina, politica e militare, che possa giustificare questo inquadramento. Inoltre le motivazioni che spinsero al combattimento le truppe italiane non furono di carattere "politico". Abbiamo visto come l'ordine dello Stato Maggiore del 13 settembre non lasciasse spazio agli equivoci, e se alcune iniziative autonome anti - tedesche di singoli ufficiali vennero in seguito contrabbandate come azioni partigiane, questo non ci stupisce, perché la nostra storia patria è purtroppo ricca di inquadramenti politici effettuati dopo che si è ben sicuri di essere dalla parte vincente.
Piuttosto invitiamo a leggere un'intervista interessantissima che ci ha rilasciato uno studioso dei fatti di Cefalonia, l'avvocato Massimo Filippini: qui il lettore troverà altri fatti specifici sui quali forse noi siamo stati meno meticolosi dell'intervistato, del quale potremo forse non condividere tutti i giudizi politici, ma non possiamo non apprezzare il valore dell'approfondimento storico da lui effettuato, animato da una schietta ricerca di verità.
Da parte nostra crediamo sia invece utile soffermarci su alcune riflessioni, in mancanza delle quali il nostro lavoro diviene inutile e vuoto.
Anzitutto riflettiamo su un fatto: quando accade un crimine, oltre agli esecutori materiali possono esserci altri, altrettanto colpevoli, pur senza aver tirato personalmente il grilletto di alcuna arma.
Ricordavamo prima il clima particolare del "dopo 8 settembre": se nulla può giustificare, dal punto di vista morale, uno scatenamento di ferocia come quello che vide i tedeschi massacrare i soldati italiani dopo il combattimento e dopo che questi si erano arresi, non possiamo però scordare che i tedeschi si sentivano traditi, nè possiamo scordare un particolare nel particolare: che erano stati effettivamente traditi dal governo italiano.
Questa affermazione, banale quanto si voglia, è però essenziale se si vuole leggere con onestà la nostra storia recente.

I morti di Cefalonia pesano su diverse coscienze: sul governo italiano, che emanò un ordine di resistenza (quello citato, del 13 settembre) senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze. Sugli alleati, che cinicamente lasciarono massacrare i soldati italiani, non solo non muovendo, loro stessi, un dito, ma bloccando l'unica iniziativa di soccorso, quella organizzata dal contrammiraglio Galati. Sul Re, su Badoglio, sul generale Roatta, capo di Stato Maggiore, su quanti il 9 settembre pensarono così precipitosamente a mettersi al sicuro da scordarsi che da loro dipendevano centinaia di migliaia di uomini, poco armati materialmente e moralmente, in balia di un alleato (non ancora "ex") che non aveva mai dato prova di particolare dolcezza e remissività.
Il tempo rimargina molte ferite, e non è assolutamente nostra intenzione, soprattutto per rispetto ai morti e al dolore delle loro famiglie, entrare a far parte della schiera degli eterni polemisti. Per tutti invochiamo la pace e il riposo, non stancandoci mai, però, di cercare testardamente la verità dei fatti, aldilà di ogni iconografia ufficiale, di ieri come di oggi.

APPENDICE
LE FORZE IN CAMPO A CEFALONIA

La Divisione "Acqui" l'otto settembre 1943 presidiava l'isola di Cefalonia con la maggior parte dei suoi effettivi ad eccezione del 18" Regg. Fanteria del IIII Gruppo del 33^ Regg. Artiglieria e della 333^ batteria 2Om/m dislocati nell'isola di Corfù. L'organico della Divisione Acqui all'8 settembre a Cefalonia era così composto: 17 Reggimento Fanteria - 317 Reggimento Fanteria - 33 Reggimento Artiglieria - 33 Compagnia Genio T.R.T - 31 Compagnia Genio Artieri - 3 Ospedali da Campo. Negli ultimi tempi erano stati aggregati come rinforzo due compagnie mitraglieri di Corpo d'Armata - una compagnia Genio Lavoratori. Dalla Acqui dipendeva pure il Comando Marina di Argostoli, dotato di tre batterie per la difesa costiera, una flottiglia di MAS e una flottiglia di Dragamine, un reparto di Carabinieri e un reparto di Guardia Finanza. Il totale delle truppe italiane si aggirava su undicimilacinquecento uomini fra sottouffíciali e truppa e su 525 ufficiali. Nel mese di Agosto 1943 a integrare il presidio Italiano era sbarcato nell'isola un contingente di truppe tedesche costituite da un Reggimento granatieri di fortezza con 9 pezzi di artiglieria. Tale contingente ammontava complessivamente a 1800 uomini fra cui 25 ufficiali al Comando del Ten.
Col. Hans Barge.

Bibliografia
Enciclopedia della Seconda Guerra Mondiale
, di Bruno P. Boschesi, Mondadori, Milano 1983
L'Italia nella Guerra Civile
, di Indro Montanelli e Mario Cervi, Rizzoli, Milano 1983
Enciclopedia dell'Antifascismo e della Resistenza
, vol. 1°, La Pietra, Milano 1968
Churchill e Mussolini
, di Nino d'Aroma, Centro Editoriale Nazionale, Roma 1962

I RETROSCENA
DELLA TRAGEDIA
Intervista all'avv. Massimo Filippini,
figlio di un caduto a Cefalonia

L'avvocato Massimo Filippini, residente a Latina, ha svolto un'intensa attività di ricerca storica sull'eccidio di Cefalonia. Ha pubblicato un libro (La vera storia dell'eccidio di Cefalonia - edizioni CDL) e cura l'aggiornamento di un apposito sito ( www.cefalonia.it ) che si propone di fornire la massima documentazione possibile per una rilettura di questa terribile pagina della nostra storia.
L'avvocato Filippini non è mosso solo dalla passione di storico, ma anche dagli affetti più profondi. Il sito è infatti dedicato "a mio Padre, Caduto senza Croce, per colpe altrui". Il padre dell'autore era il maggiore in servizio permanente effettivo Federico Filippini, comandante il genio divisionale della "Acqui", uno degli ufficiali caduti nei tragici eventi che si svolsero sull'isola greca dall'8 al 25 settembre 1943.

D: Avvocato Filippini, Lei si è proposto una revisione della storiografia ufficiale sui fatti di Cefalonia. Su quali aspetti della vicenda si sono dunque avuti dei travisamenti? E questi sono stati, a Suo avviso, intenzionali?

R: Non è più un mistero che a Cefalonia, nei giorni dall'8 al 15 settembre '43, si verificarono incredibili atti di sedizione configuranti non solo illeciti disciplinari ma anche e soprattutto reati previsti e puniti dal codice penale militare, ad opera di alcuni ufficiali subalterni - tenenti o capitani - i quali aizzarono i soldati dipendenti, quasi tutti dell'artiglieria, contro il Comando di Divisione accusato di essere, in qualche modo, complice dei tedeschi per il solo fatto di trattare la cessione delle armi con essi, in ottemperanza agli ordini ricevuti dal Comando di Armata di Atene.
Nella pubblicazione dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dal titolo "Cefalonia", del 1945, si legge -in proposito- a pag.3: "Nell'isola di Cefalonia avvennero soprattutto due fatti che il popolo italiano ha il dovere di conoscere in tutta la loro verità.
Il primo: l'intimo dramma del generale italiano comandante delle truppe italiane nell'isola. Il secondo: per sette giorni, parte delle truppe dell'isola sono in rivolta contro il proprio generale"
A sua volta Il colonnello Giuseppe Moscardelli, in un libro redatto per incarico dello stesso Ufficio, intitolato anch'esso "Cefalonia", definì tutto ciò in modo alquanto eufemistico, (sol che si pensi all'assassinio del capitano Piero Gazzetti, dell'ufficio comando divisione, ad opera di un invasato maresciallo di marina "rivoltoso"), ma sufficientemente chiaro, cioè come "una violenta crisi disciplinare fra le truppe per alti motivi ideali"
Che si sia trattato di "rivolta" o di "crisi disciplinare", un fatto è certo, e cioè che l'Esercito Italiano sapeva -fin dal 1945- come erano andati i fatti e tuttavia tacque o fu costretto a farlo dal potere politico dell'epoca, che impose il silenzio per non compromettere l'inserimento della vicenda di Cefalonia nell'ambito della Resistenza, all'epoca egemonizzata, più di quanto lo sia oggi, dai socialcomunisti che ne reclamavano il monopolio agevolati in ciò dalla vile acquiescenza degli altri partiti politici.
Rispondendo alla sua domanda, si può, quindi, affermare che i travisamenti dei fatti furono prassi costante come dimostra, ad esempio il conferimento del Diploma di Partigiano ai militari della Divisione per cui mio Padre, da Maggiore Comandante del Genio Divisionale venne trasformato nel "Partigiano" Federico Filippini appartenente alla "Formazione" divisione "Acqui", con l'"incarico" di partigiano".
Quanto alla intenzionalità delle frottole raccontate, non possono sussistere dubbi, essendo evidente che la manipolazione degli avvenimenti si rese necessaria per creare una ricostruzione storica "virtuale" o di comodo che permettesse di inserire un episodio tragico ma, pur tuttavia, prettamente militare, nell'ambito della Resistenza sviluppatasi successivamente, la quale ebbe caratteri e connotati del tutto diversi.

D: Personalmente sono rimasto stupito leggendo, su varie fonti, di un referendum che il generale Gandin avrebbe organizzato tra i suoi uomini. Inoltre si legge anche di una iniziativa autonoma di alcuni ufficiali, che avrebbero cercato di contrastare uno sbarco di rinforzi tedeschi, mentre il generale Gandin cercava invece di guadagnare tempo. Non mi pare precisamente un modus agendi consono alla disciplina militare: sembrerebbero eventi da soviet dei soldati. D'altra parte nelle giornate del "dopo 8 settembre" la mancanza di direttive chiare e univoche causò non pochi comportamenti anomali nelle forze armate. Cosa può dirci al proposito?

R: Dei quesiti postimi, rispondo prima a quello relativo all'iniziativa "autonoma" di alcuni ufficiali che, il mattino del 13 settembre, ordinarono di loro iniziativa l'apertura del fuoco alle batterie da loro comandate, contro due motozattere tedesche che stavano per attraccare nel porto di Argostoli.
Esso rappresentò la punta dell'iceberg nella rivolta contro il generale Gandin da parte di alcuni ufficiali inferiori, tenenti o capitani che, ergendosi ad unici depositari dell'onore militare ed arrogandosi il diritto di sostituirsi ai propri superiori nelle funzioni decisionali e di comando, cercarono, con tale gesto, di dar luogo al "fatto compiuto" - come essi stessi lo definirono - atto a far fallire le trattative che il generale Gandin, come si è detto, stava conducendo con i tedeschi, in ottemperanza, ripeto, di ordini ricevuti dal proprio Comando d'Armata.
Si trattò, in sostanza, di un gesto sconsiderato e inconcepibile che, tra l'altro, non determinò affatto l'apertura delle ostilità -come si è falsamente tramandato dai suoi autori e dai loro corifei- mentre invece "fu deleterio per la saldezza disciplinare dei reparti" come affermò, in data 21 gennaio 1947, la terza sottocommissione accertamenti presso il Ministero della Guerra, chiamata a pronunciarsi su di esso.
Successivamente, durante il processo svoltosi sul finire degli anni '50 contro i predetti rivoltosi, costoro fecero passare tale "bravata" -per timore di spiacevoli conseguenze giudiziarie- come un atto difensivo compiuto per salvare il Comando di Divisione (!) da una potente "flotta da sbarco" composta di due motozattere cariche di viveri e di materiale per il distaccamento tedesco di Argostoli, e non certo di "mitragliatrici e cannoni", come essi dichiararono al pubblico ministero ed al giudice istruttore militari.
Che il Comando di Divisione non avesse bisogno di protezione in quanto nessun pericolo imminente lo minacciava e che quindi i "rivoltosi", in veste di imputati avessero detto fandonie, fu accertato dal Pubblico Ministero Militare nella sua Requisitoria, depositata il 27 marzo 1957, ove, a pagina 60, si legge quanto segue: "Riferisce il teste capitano Postal: "A un certo momento dello stesso mattino del 13 ricevetti dal comandante del 33° reggimento col.Romagnoli l'ordine da trasmettere ai comandanti di batteria di cessare immediatamente il fuoco. Cercai di mettermi in contatto telefonico con la prima batteria, ma non ci riuscii per un guasto al telefono (così ritengo). Presi allora contatto telefonico col comandante della quinta batteria, ma il tenente Ambrosini, ricevuto l'ordine, mi rispose che non accettava ordini del Comando di Reggimento, ma solo del tenente Apollonio. Spedii allora un motociclista con un ordine scritto per il capitano Pampaloni, comandante della prima batteria.
Po il ten.col. Fioretti, Capo di Stato Maggiore della divisione, mi sollecitò per una pronta esecuzione, dal momento che le batterie sparavano ancora. Scesi allora nella via antistante il comando, dove era il pezzo della batteria di Apollonio. Ingiunsi ad Apollonio di cessare immediatamente il fuoco e di farlo cessare al tenente Ambrosini: l'Apollonio mi rispose che non avrebbe cessato il fuoco prima che i tedeschi lo avessero cessato a loro volta. Infatti le batterie semoventi tedesche avevano risposto al fuoco delle nostre batterie e continuavano a sparare. Io replicai ad Apollonio: i tedeschi hanno ordine di cessare il fuoco, quindi cessatelo voi, dal momento che siete stati i primi ad aprire il fuoco, e anche i tedeschi smetteranno di sparare. Apollonio cercò di resistere al mio ordine, quantunque gli facessi presente che veniva dal comando di Reggimento e dal comando di Divisione.
Dopo che io gli feci presente che, se insisteva, sarebbe andato a finir male, finalmente s'indusse ad accettare l'ordine. Poco dopo arrivò sulla stessa via il capitano Pampaloni che protestò per l'ordine di cessare il fuoco (evidentemente il Pampaloni era stato informato dal motociclista inviato presso di lui). Io dissi al Pampaloni, il quale davanti ai soldati protestava ad alta voce -dicendo che si trattava di ordine assurdo- che tali discorsi non si dovevano fare davanti ai soldati e che solo davanti al Comando di Reggimento egli avrebbe potuto ottenere chiarimenti. Il Pampaloni mi rispose che non accettava ordini da me, al che io reagii un po' vivacemente. Ma alla fine il fuoco cessò".
La suddetta testimonianza non ha bisogno di commento, essendo di per sé sufficiente a dimostrare quale fu il "modus agendi" di detti ufficiali -trasmesso ovviamente ai propri soldati- che, purtroppo, anziché trovare la giusta punizione -in quanto causa oltretutto della tragedia che avvenne - fu esaltato irresponsabilmente dai nostri governanti dell'epoca e ricompensato, addirittura, con il conferimento di medaglie o altre benemerenze, come la medaglia d'argento concessa all'allora capitano Pampaloni per essere stato, "il primo ad aprire il fuoco" sui tedeschi.

Faccio notare, per inciso, che il predetto, per sua ammissione, era di idee marxiste all'epoca dei fatti e lo è tuttora, come la sua appartenenza all'ANPI dimostra. Chi vuol trarre conclusioni da ciò è libero di farlo.
Quanto al cosiddetto "referendum" che il generale Gandin avrebbe indetto (!) tra i soldati per decidere il da fare, esso è forse la più colossale montatura, tra le tante avutesi sui fatti di Cefalonia, che è necessario smascherare non essendo più lecito, soprattutto sul piano morale prima che su quello storico, che si continui a perpetuare una menzogna di tal genere.
Tutto ebbe inizio con l'arrivo, nella notte del 13 settembre, del tele, inviato dal Comando Supremo italiano postosi in salvo a Brindisi, dopo la vergognosa "fuga di Pescara" del re e del suo seguito, contenente l'ordine di resistere ai tedeschi, di cui gli storici "resistenzialisti" e gli "utili idioti" che li circondano, sono restii a parlare, per paura che, una volta reso di pubblico dominio, esso faccia crollare miseramente il castello di frottole costruito sulla cosiddetta "unanime volontà", della Divisione "Acqui" di combattere contro i tedeschi.
A tale ordine che, per buona memoria riportiamo...
 (" N.1029/CS (Comando Supremo) alt Comunicate at generale Gandin che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo at Cefalonia, Corfù et altre isole alt Firmato. Francesco Rossi Sottocapo di Stato Maggiore"),
...il generale Gandin da soldato ligio agli ordini dei propri superiori, si adeguò, anche se in cuor suo giustamente preoccupato per le tragiche conseguenze che ne sarebbero derivate e che, in effetti, si verificarono. Famosa fu la sua frase rivelatasi, purtroppo, profetica: Se perdiamo ci fucileranno tutti, pronunciata evidentemente sulla base della sua profonda conoscenza dei tedeschi che non avrebbero certo lasciato passar liscio un rovesciamento così repentino e proditorio di alleanza da parte nostra.
Ciò premesso diciamo subito che il generale Gandin non ordinò alcun referendum, ma rivolgendo la sua preoccupata attenzione su ciò che sarebbero state in grado di fare le truppe ai suoi ordini, che egli ben conosceva, reiterò i forti dubbi, già espressi in precedenza, sulle capacità di resistenza della fanteria -a massa infinitamente più numerosa dei soldati- ai previsti attacchi aerei che non sarebbero certo mancati e che, come egli aveva lucidamente previsto, furono l'arma vincente dei tedeschi.
Non era un mistero, d'altronde, che i due reggimenti di fanteria male armati e, praticamente indifesi contro eventuali minacce aeree, fossero, in maggioranza, poco propensi al combattimento a cominciare proprio dai loro ufficiali Superiori, generale Gherzi, col.Ricci e ten.col. Cessari pronunciatisi, in sede di Consiglio di Guerra convocato -per ben due volte- dal generale Gandin, favorevoli alla cessione delle artiglierie e delle armi pesanti ai tedeschi.
Lo stesso capitano Pampaloni, fece una dichiarazione assai esplicita, riportata dal col. Moscardelli nel suo libro, a pag.54, riferendosi all'accordo che la sera del 12 stava per essere raggiunto con i tedeschi: "Il colonnello Romagnoli (suo superiore diretto) insistette per convincermi (a cessare dal suo atteggiamento oltranzista) dato che non tutti gli Italiani erano decisi ad una azione energica, ed aggiunse: "Infatti nella nottata stessa mi recai in autocarretta al comando di reggimento, al comando di divisione, ai comandi dei tre battaglioni di fanteria, mi incontrai con molti ufficiali e mi resi conto che la maggioranza accettava questa decisione (di cedere cioè le armi).
Quanto sopra è la più autorevole smentita, anche per la provenienza dal Pampaloni, di tutte le falsità e le menzogne raccontate in oltre mezzo secolo sul preteso "referendum" in cui, all'unanimità, Ufficiali e soldati, avrebbero deciso di combattere contro i tedeschi pur nella consapevolezza di un esito finale infausto.
"Non abbiamo un solo aereo a nostra disposizione. I tedeschi potranno scaraventare sull'isola le loro squadriglie di aerei Stukas. Dalla loro micidiale offensiva aerea io non potrò difendere i miei uomini. Le fanterie, soprattutto, che dovranno scattare all'attacco, manterranno saldo il loro morale? Resisteranno a lungo mentre si vedranno falciare indifese dai bombardamenti aerei?" Questi, nel racconto di Padre Romualdo Formato furono i dubbi che attanagliarono l'animo di Gandin fino all'ultimo, per cui è lecito ritenere che con il presunto "referendum" egli abbia voluto tastare il polso della truppa prima di rispondere in modo definitivo alle richieste di cessione delle armi avanzate dai tedeschi. E' ovviamente da escludere che il parere di una parte dei soldati - quelli cioè che poterono darlo - abbia influito sulla decisione che egli aveva in animo di prendere, essendo fuor di dubbio la sua obbedienza all'ordine ricevuto da Brindisi.
Come detto, i soldati, interpellati in un lasso di tempo brevissimo e senza alcuna regola che consentisse loro di esprimersi a ragion veduta, non furono tutti, ma solo una minoranza, costituita soprattutto dai reparti dell'artiglieria, che si agitavano ab initio per la lotta e che la facevano ormai da padroni, agevolati dal fatto di essere concentrati intorno alla capitale Argostoli, sede del comando divisionale, né risulta che la fanteria abbia espresso -nella sua totalità- alcun parere. Nessuno ha mai scritto, inoltre, come si sia svolta questa consultazione che, dal punto di vista militare, era assurda e fuori di ogni regola, ma pareva nascere esclusivamente dal tumulto militare.

La mattina del 14 si disse che il cento per cento dei soldati avevano votato contro i tedeschi. Il fatto non sembra credibile, non solo perché non si sa quale fu la procedura seguita e se tutti furono interpellati, ma anche perché vi erano alti ufficiali, come i tenenti colonnelli Uggè e Sebastiani, che volevano passare con i tedeschi, oltre ai comandanti dei reggimenti di fanteria e del genio che si erano espressi -in ben due Consigli di guerra indetti in precedenza dal generale Gandin- in favore della cessione delle armi.

Sembra impossibile, oltre che assurdo, che costoro non avessero seguaci, e ciò porta a ritenere, ragionevolmente, che quelle che Lei, con molta aderenza alla realtà, definisce manifestazioni di "sovietismo" non siano state del tutto spontanee né totalitarie, ma soltanto imposte, con metodi di stampo bolscevico, alla maggioranza delle truppe da una minoranza di forsennati, resi tali oltre che dai vaneggiamenti di alcuni loro superiori diretti anche dalla propaganda greca che in quei giorni ebbe interesse ad aizzare i nostri soldati contro i tedeschi, fermo restando che, come gli eventi successivi dimostrarono, in particolare con l'annientamento della divisione "Pinerolo" ad opera loro -sul continente greco- per essi, sia italiani che tedeschi, rimasero acerrimi nemici da combattere.

D: Avvocato, i combattimenti a Cefalonia durarono dal 15 al 22 settembre '43. In questo lasso di tempo cosa venne fatto da parte del governo italiano (ammesso che in quel momento esistesse un governo italiano... ) per venire in soccorso della Divisione Acqui? O non venne fatto nulla?

R. L'eccidio di Cefalonia fu la risultante di una serie di circostanze combinatesi tra loro in modo tale che il tragico epilogo ne sembrò, addirittura, la conclusione più logica.
Tutto congiurò a tal fine: dal silenzio radio sceso sull'isola, alla propaganda greca che sconvolse le menti e fece venir meno la disciplina; dalla rivolta degli artiglieri capeggiati da giovani ufficiali, ardimentosi ma irresponsabili, alla eccessiva tolleranza del generale Gandin verso costoro che, a conti fatti, risultò fatale.
Quanto sopra dette luogo ad una azione "nella quale -come ben disse lo storico Attilio Tamaro- gli inferiori avevano comandato ed i superiori obbedito".
A ciò è da aggiungere -e con questo rispondo alla domanda- la spaventosa responsabilità di Badoglio e del Comando Supremo che fuggirono lasciando le truppe, in patria ed oltremare, in balìa di sé stesse, unitamente a quella dei nuovi "alleati" che non vollero aiutare la "Acqui" durante la disperata lotta con i tedeschi e si avrà il quadro completo della situazione.
Le responsabilità del gruppo badogliano, in particolare, lungi dall'esaurirsi nell'ambiguo testo dell'armistizio, culminarono nel criminoso radiogramma con cui il Comando Supremo -a fuga ultimata- emise l'ordine di resistere "manu militari" ai tedeschi nella notte del 13 settembre. Esso mutò radicalmente la situazione, poiché Gandin non potè più far nulla per salvare il salvabile, ma dovette obbedire.
Il Comando Supremo spinse così al suicidio la divisione - complice l'attività ritardatrice dei rivoltosi - ben sapendo che non avrebbe potuto mandarle alcun aiuto e che gli Alleati l'avrebbero lasciata perire; "al governo badogliano - scrisse il Tamaro - occorreva che si combattesse a qualunque costo, occorrevano anche quei morti per tentare di forzare il riconoscimento da parte degli Alleati e per giocare quella carta insanguinata a favore della vanamente invocata alleanza".
La criminosità di tale ordine trovò conferma, tra l'altro, nella risposta che il Comando Supremo fornì alle disperate richieste di Gandin, che esso aveva gettato allo sbaraglio, il cui tenore fu il seguente: "Impossibilità invio aiuti richiesti alt Infliggete nemico più gravi perdite possibili alt Ogni vostro sacrificio sarà ricompensato alt Ambrosio". Niente aiuti, dunque, ma soltanto promesse a soldati mandati a morire inutilmente.
Nella Marina, a onor del vero, un tentativo fu fatto dall'ammiraglio Galati che, impressionato dai drammatici appelli, propose al ministro De Courten di agire ad insaputa degli Inglesi e, ottenuta l'autorizzazione, partì da Brindisi alla volta di Cefalonia, al comando di due torpediniere cariche di viveri, medicinali e munizioni.
Dopo poco lo raggiunse un radiogramma che gli ingiunse di rientrare alla base immediatamente: L'Alto Commissario Alleato, il generale inglese Mac Farlane aveva imposto tale ordine e il ministro aveva ceduto.
Con tale scellerato atto anche gli Alleati si conquistarono, dunque, la loro bella fetta di responsabilità nella tragedia che si stava consumando a Cefalonia.
In tale coacervo di responsabilità, comunque, la più grave, che pesò come un macigno sul gruppo badogliano, fu quella di non avere dichiarato guerra alla Germania, con tutte le nefaste conseguenze che seguirono e che scandalizzarono gli stessi Alleati.
Il 29 settembre, infatti, durante la conferenza svoltasi a Malta tra il generale Eisenhower ed i membri del governo Badoglio avvenne il seguente colloquio:
EISENHOWER: "Desidero sapere se il governo italiano è a conoscenza delle condizioni fatte dai tedeschi ai prigionieri italiani in questo intervallo di tempo in cui l'Italia combatte la Germania senza averle dichiarato guerra".
AMBROSIO: "Sono sicuro che i tedeschi li considerano partigiani".
EISENHOWER: "Quindi passibili di fucilazione?".
BADOGLIO: "Senza dubbio".
EISENHOWER: "Dal punto di vista alleato la situazione può anche restare com'è attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l'Italia dichiarare la guerra".
Dunque gli Alleati e, soprattutto, i badogliani sapevano qual'era la sorte degli italiani mandati al combattimento! Badoglio, anzi, era certo che gli stessi erano passibili di fucilazione, ma ciò non gli impedì di inviare il drastico ordine di combattere che costò la vita a circa diecimila uomini morti in una "lotta pazzesca e inutile" come, con molta aderenza alla realtà, il Maresciallo Alexander e l'Ammiraglio Cunningham definirono quanto avvenne a Cefalonia.
Concludendo mi sembra logico rilevare, alla luce di quanto sopra, la pretestuosità della tesi, sostenuta dalla storiografia ufficiale, che ha sempre puntato il dito accusatore soltanto verso i tedeschi, quali unici responsabili dell'eccidio di Cefalonia, omettendo di precisare -per inconfessabili motivi- che costoro recitarono la parte -a loro congeniale- di carnefici, sempre e soltanto a seguito di azioni la cui responsabilità ricadde su altri.

D: Lei è certo a conoscenza delle dichiarazioni rilasciate dal senatore a vita Taviani, secondo il quale nel 1956 il ministro degli Esteri Gaetano Martino (PLI) si adoperò presso il ministro della Difesa (carica ricoperta appunto da Taviani) per insabbiare gli atti istruttori che avrebbero potuto portare all'incriminazione di diversi ufficiali tedeschi responsabili della strage di Cefalonia. La motivazione politica di questa ingerenza era la necessità di non gettare discredito sul ricostituito esercito tedesco (del quale facevano parte alcuni di quegli ufficiali), che rappresentava uno dei cardini principali del dispositivo di difesa contro la minaccia comunista. Lei cosa può dirci al proposito?

R: Il presunto insabbiamento della strage di Cefalonia -da parte di Taviani e Martino- è stato montato ad arte dai signori della sinistra nostrana, i quali attraverso la scoperta del "nulla", hanno tentato di inserirsi a pieno titolo nella "querelle" relativa alla collocazione storico-ideologica della vicenda, non avendo digerito l'insuccesso delle loro ricorrenti manovre intese ad annoverare acriticamente la stessa nell'ambito di quella parte della Resistenza a loro congeniale, quella, per intenderci, color rosso sangue. Avvalendosi, quindi, della collaborazione dei numerosi "utili idioti" circolanti in Italia e inconsciamente al loro servizio, essi sono riusciti a far credere che il procedimento giudiziario contro alcuni militari tedeschi ritenuti responsabili degli efferati eccidi commessi a Cefalonia, sia stato insabbiato, nel '57, dalla nostra Magistratura Militare per l'intervento del ministro della Difesa dell'epoca Taviani in combutta con quello degli Esteri Martino,
Indubbiamente, da parte di questi due personaggi vi fu una volontà politica comune mirante ad evitare che inchieste giudiziarie sui fatti di Cefalonia, potessero danneggiare l'immagine che la Germania democratica stava faticosamente cercando di darsi, ed in questo consiste la "scoperta" del giornalista Giustolisi, nell'aver visionato cioè una lettera di Martino sostenente tale necessità sulla quale Taviani scrisse in calce "concordo pienamente con il ministro Martino".
Tale concordanza di vedute e di aspirazioni , vergognosa soprattutto in Taviani, Presidente della FVL che raggruppa tutte le Associazioni Combattentistiche e, soprattutto, Partigiane(!), rimase però allo stato embrionale, non avendo potuto influire sul funzionamento della Magistratura Militare, che, proprio per la sua indipendenza da qualsiasi altro potere dello stato, si attivò a seguito delle denunce di un magistrato, padre di un Caduto, il quale riuscì a far rinviare a giudizio 27 imputati italiani, tra cui i principali furono il Pampaloni e l'Apollonio, e 30 militari tedeschi.
Naturalmente i reati loro ascritti erano diversi ma, per ragioni di connessione oggettiva ad essi venne assegnato lo stesso giudice, il Tribunale Militare di Roma, che svolse l'istruttoria relativa a quelli italiani mentre per quelli tedeschi si ebbero difficoltà oggettive derivanti dall'assenza di accordi bilaterali che permettessero non solo l'eventuale estradizione degli imputati ma addirittura non consentivano la richiesta delle complete generalità data l'improponibilità della richiesta di estradizione.
Per chi volesse saperne di più rammento che tutta la vicenda riguardante detto processo è ampiamente riportata e documentata nel mio libro cui, ovviamente, rimando il lettore.
Concludo ribadendo, se ve ne fosse ancora bisogno, che la questione dell'insabbiamento ripresa dalla stampa "sinistreggiante" è un falso scoop destinato ancora una volta a fuorviare l'opinione pubblica fornendo ad essa, come autentica, una "realtà virtuale" esistente soltanto nella mente insana di chi la concepì.

D: Il Suo libro, ed ora il Suo sito (
www.cefalonia.it ), che tipo di risposta hanno avuto, e da chi in particolare?

R: Il mio libro, ancorché pubblicato da un modesto editore e distribuito quasi esclusivamente attraverso il metodo del "passa parola" ha avuto un'accoglienza entusiastica, man mano che se ne è diffusa l'esistenza, soprattutto fra gli appassionati non della storia ma "della verità storica" ivi compresi i congiunti dei Caduti che me ne hanno fatto gran richiesta accompagnata da lodi ed apprezzamenti, soprattutto per aver saputo "finalmente la verità".
Aggiungo che il mio piacere più grande è quello di aver inferto un colpo mortale ai falsificatori della storia che albergano e vivono di rendita, da decenni, nel culturame politico-ideologico della sinistra.
Quanto al mio sito esso è andato ad aggiungersi al successo del libro e sono certo che, anche per le migliorate condizioni politiche che - grazie a Dio - si preannunciano, avrà il successo che la Verità dei fatti ed i Martiri di Cefalonia reclamano da lunghissimi anni".
______________________ 

Ringrazio l'avvocato Filippini per la Sua cortese disponibilità. Voglio tuttavia precisare che, pur apprezzando il contributo dato dalla sua intervista alla conoscenza dei fatti di Cefalonia, non posso condividere, pur pubblicandole per rispetto alla libertà di pensiero, determinate espressioni che esprimono spirito di parte. La verità storica non abita né a destra, né al centro, né a sinistra; e va ricordato che il falso storico può essere costruito a destra, al centro ed a sinistra. La precisazione è dovuta ai lettori di STORIA in network poiché essi ci apprezzano, e ci seguono da cinque anni, proprio per lo sforzo continuo di leggere la storia senza preconcetti, mettendoci al di sopra della passione politica che ognuno di noi ha (e deve avere), accettando solo la verità, rigorosamente provata, da qualsiasi parte venga.
il direttore

Ringrazio per l'articolo  
FRANCO GIANOLA,
direttore di
STORIA IN NETWORK

Dal sito: http://www.cronologia.it/storia/a1943i.htm


Il sacriuficio della Divisione Acqui. Milano 20.09.2000
Intervento di Amos Pampaloni
combattente di Cefalonia e comandante del 33° Artiglieria.

Prima di tutto rivolgo un pensiero commosso ai caduti della Divisione di Fanteria da montagna Acqui, i quali, costretti da un governo dittatoriale alleato dei nazisti a combattere per oltre tre anni contro popoli che per cultura e tradizione erano amici, non vollero per spirito patriottico cedere le armi ai tedeschi e furono i primi eroi combattenti per la libertà, dando inizio alla Resistenza italiana.

La responsabilità delle stragi di Cefalonia e Corfù ordinate da Hitler, sono dei comandi militari alleati e del governo Badoglio. Infatti l'articolo 8 delle dodici condizioni dell’armistizio dettate dal generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze armate alleate, imponeva al governo italiano di richiamare in Italia tutte le Forze armate italiane in qualunque zona in cui si trovavano. Inoltre il generale Smith, capo di Stato Maggiore delle Forze armate nel Mediterraneo, affermò che le truppe italiane dislocate nei Balcani potevano essere trasportate in Italia anche con mezzi navali alleati, e reso noto il generale Smith che il presidente Roosevelt e il ministro Churchill avevano redatto un importante documento allegato alle condizioni di armistizio e che fra l'altro affermava testualmente quanto dico: "le Nazioni Unite dichiarano senza riserve che ovunque le forze italiane combatteranno i tedeschi o distruggeranno proprietà tedesche od ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile delle forze delle Nazioni Unite; nel frattempo, se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nei limiti del possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche".

Ma, nonostante queste belle parole, gli inglesi e gli americani si disinteressarono completamente della resistenza della Divisione Acqui e non fu inviato un solo aeroplano per contrastare gli Stukas che a 30, 40 per volta bombardavano dalla mattina alla notte non solo gli obiettivi militari ma anche quelli civili e non sono mai stati bombardati i convogli marittimi tedeschi che dalla Grecia portavano continuamente nelle isole uomini ed armi. Infine il governo Badoglio ritardando fino al 10 ottobre la dichiarazione di guerra alla Germania ha abbandonato i militari italiani che nel settembre combattevano contro i tedeschi lasciandoli praticamente in una posizione di irregolarità. Questo non giustifica la strage fatta dai tedeschi.

Permettetemi di esprimere stupore e dolore nell'avere appreso che due ministri della Repubblica italiana hanno negato per opportunità politica ad un procuratore militare di chiedere l'estradizione od almeno le complete generalità di trenta ufficiali tedeschi ritenuti responsabili degli "incidenti" - come li chiama uno dei due ministri - di Cefalonia e Corfù. E queste lettere sono state archiviate provvisoriamente - archiviate provvisoriamente - per oltre 50 anni nella Procura Generale Militare insieme a 695 fascicoli di crimini nazifascisti fra i quali 15 fucilati in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944.

Nel settembre '43 ero capitano d'artiglieria comandante la 1° batteria del 33° Reggimento. Oggi novantenne insieme agli altri combattenti sopravvissuti dedico le mie residue energie per trasmettere alle nuove generazioni la cultura della pace, della giustizia, della solidarietà per auspicare la riforma democratica dell'organizzazione delle Nazioni Unite, in modo che abbia questa organizzazione la capacità di impedire la guerra, la fabbricazione ed il commercio delle armi da guerra e risolvere senza violenza, senza bombardamenti, col dialogo, diplomaticamente, le inevitabili crisi politiche, etniche, religiose, economiche e sociali che sorgono fra i popoli.

La Divisione Acqui ha iniziato la guerra di Liberazione, ma le Forze Armate hanno partecipato alla Resistenza oltre che in Grecia, anche in Albania, in Jugoslavia, in Francia, in Italia col Corpo Italiano di Liberazione, con i gruppi di combattimento, con i militati di professione e di leva, nelle file partigiane. La Resistenza è stata fatta anche dalle Brigate partigiane, ma non solo. Non è retorica affermare che la Resistenza è stata fatta da tutto il popolo italiano, dal nord al sud, come testimoniano le numerose ricompense al Valore Militare concesse ai civili, ai paesi, alle città, alle province, alle regioni, per consacrare l'eroismo delle popolazioni italiane, per consacrare la loro generosità e tenacia attorno ai combattenti, aiutandoli con abnegazione incitandoli, subendo le feroci rappresaglie del nemico con distruzioni, con deportazioni, con sanguinose repressioni.

Se facciamo una analisi storica del periodo fra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si può affermare che per l'Italia è stato un secondo Risorgimento per la resistenza al nemico invasore, per la riconferma dell’unità della nazione, per la rifondazione della Patria, la premessa della Costituzione, e la premessa della democrazia..

Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_pampaloni.htm


Il sacrificio della Divisione Acqui, Milano 20.09.2000
Intervento di Alfredo Cascone
presidente del comitato milanese della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e partigiane.

Innanzitutto desidero portare il mio più riverente saluto alla Medaglia d’oro al V.M. Vincenzo Capelli, alla Medaglia d’oro al V.M. Alberto Li Gobbi, alla Medaglia d’oro al V.M. Giovanni Pesce; grazie per essere qui con noi. Mi è particolarmente gradito il compito di portare a voi il mio riconoscente grazie anche a nome di tutta la presidenza della Confederazione milanese per la vostra sensibilità verso una sciagurata pagina della nostra storia, quella dell'eccidio dei componenti la Divisione Acqui.

Il mio omaggio e la mia gratitudine vanno in modo particolare ai reduci ed ai familiari di quella triste pagina della storia del nostro esercito che sono qui presenti, con la preghiera che essi portino i nostri sentimenti di infinita solidarietà a tutti i loro commilitoni ed in particolare domani al raduno di Verona alla presenza del nostro presidente della Repubblica.

Sono in serie difficoltà ed è con infinita commozione che mi trovo ad affrontare un argomento tanto delicato come il ricordo dei nostri caduti assassinati, solamente per vendetta, nell'isola di Cefalonia nel settembre del 1943.

57 anni fa si è compiuto il peggiore atto barbarico che un esercito invasore, senza onore, possa compiere. Se ancora si vuol sottolineare il senso della barbaria tedesca, il suo comando proibiva la sepoltura dei nostri soldati fucilati perché "i ribelli non hanno diritto alla sepoltura".

Va ricordato che il contingente italiano si aggirava su 11.500 fra sottufficiali e truppe, con 525 ufficiali. Il gen.Gandin comandava la Divisione Acqui e il ten.col. Barge il contingente tedesco.

Le contraddizioni degli ordini del gen. Vecchiarelli destarono serie perplessità nel Gen.Gandin. Il giorno 10 Settembre si presentava al comando di divisione il ten.col.Barge e chiedeva l’immediata cessione delle armi, comprese quelle individuali, imponendo il termine massimo: le ore 10 dell’11 settembre.

Con arroganza degna del peggior nazista impose che la consegna delle armi comprese quelle personali, avvenisse nella Piazza principale di Argostogli alla presenza della popolazione.

Ricordo a tutti voi questo vile metodo di umiliare il nostro esercito perché questo atto determinò la strage. Infatti dopo tristi vicissitudini il gen. Gandin prese la decisione, per la prima volta negli eserciti italiani, di invitare le truppe ad esprimere il proprio parere sui seguenti 3 punti prima di procedere di fronte a Dio e gli uomini:

1- contro i tedeschi

2- insieme ai tedeschi

3- cessione delle armi.

La risposta è stata plebiscitaria: contro i tedeschi.

Dello stesso parere erano la maggior parte dei giovani ufficiali. I tedeschi, infrangendo lo "status quo" conseguente alle trattative in corso, attuarono numerosi spostamenti di truppe facendo altresì affluire rinforzi dal continente. Ma la Acqui era ben decisa a non lasciarsi sopraffare. A rafforzare questa situazione contribuiva la solidarietà del popolo greco che si univa spiritualmente al soldato italiano, compreso gli ufficiali dell'esercito popolare greco di liberazione che operava sulle montagne i quali si presentavano ai nostri comandi chiedendo armi e offrendo generosamente la loro collaborazione.

A confermare il risultato del plebiscito giunse il cifrato a firma del gen. Francesco Rossi che ordinava di resistere alle richieste tedesche. Alle ore 12 il comando di Divisione consegna in Argostoli al comando tedesco il seguente messaggio: "La Divisione Acqui non cede le armi".

La battaglia impari per forza e mezzi durò dalle ore 14 del 15 settembre alle ore 16 del 21 settembre.

Amici, da qui comincia l'odissea della Divisione Acqui.

La sera del 21 settembre e l'alba del 22 l'intera Divisione veniva decimata e il gen. Gandin convocò per l’ultima volta il Consiglio di Guerra, il quale decise di richiedere la resa senza condizioni.

La riunione per la resa durava circa due ore, quindi gli ufficiali del comando divisione deposero sul tavolo le loro pistole di ordinanza diventando da quel momento prigionieri di guerra. Nonostante la bandiera bianca di resa issata sul comando tattico, non finiva la fucilazione dei reparti che deponevano le armi.

Alle ore 16 del 22 settembre la battaglia di Cefalonia era finita, ma le fucilazioni continuavano per tutta la giornata del 23 settembre durante i rastrellamenti effettuati dai tedeschi. Dopo le esecuzioni sommarie in massa sul campo di battaglia nel corso delle quali avevano incontrato la morte 155 ufficiali e 4.750 uomini di truppa, sembrava che l’impeto di bestiale ferocia sanguinaria fosse giunto al suo epilogo. Purtroppo invece tra il 23 e il 28 settembre i tedeschi massacrarono altri 5.000 uomini di truppa e 129 ufficiali, compreso il gen.Gandin. I rimanenti 163 ufficiali accantonati presso la palazzina dell'ex comando Marina e all'ex caserma Mussolini venivano caricati su autocarrette e trasferite a punto San Teodoro nella famigerata casetta rossa e dopo un sommario processo venivano avviati al supplizio a 4 per volta.

Compiuto l'orrendo crimine bisognava far scomparire le tracce: ad eccezione di alcune salme lasciate insepolte gettate in cisterne artificiali, la maggior parte vengono bruciate in una fossa comune e i resti buttati in mare.

Secondo i più recenti accertamenti (non facili) le perdite complessive della divisione Acqui e della Marina ammontano a 390 ufficiali su 525 e a 9.500 uomini di truppa su 11.500.

Pertanto gli scampati, cioè i superstiti, erano 135 ufficiali e circa 2000 uomini di truppa, la maggior parte deportati in Germania e poi in Russia da dove una parte non è più tornata.

A ricordo della Divisione Acqui è stato eretto un monumento a Cefalonia, città nella quale il 21 settembre di ogni anno viene commemorato l’eccidio alla presenza di autorità militari. Il giorno 28 di questo mese con una delegazione porteremo una corona d’alloro e ci inchineremo al monumento che rappresenta tutti i martiri.

Di fronte a questo orrendo delitto perperato dai servi di Hitler viene spontanea una riflessione: ma i responsabili di questo eccidio sono stati puniti? Sin dal 1956 furono individuati dal P.M. militare i 30 ufficiali tedeschi ai quali ricadeva la responsabilità del massacro. Ebbene ragioni di politica estera consigliarono al nostro governo di allora di soprassedere alle richieste di estradizione delle 30 belve assassine.

Non voglio entrare nelle ragioni di opportunità di questo comportamento, sta di fatto che 9.890 nostri compatrioti sono stati barbaramente assassinati senza che i loro carnefici abbiano subito la giusta punizione.

La vicenda assume un enorme significato morale. Cosa potrebbero pensare i nostri figli, i nostri nipoti di fronte alla possibilità di dovere ubbidire al richiamo della Patria se questa Patria poi, per opportunità politica, non ti protegge e non punisce chi si macchia di orrendi delitti come quello di Cefalonia?

Sono assolutamente convinto che il governo di allora abbia agito per la pacificazione dei popoli, e per ragioni superiori. Evidentemente il momento non concedeva altra possibilità, ma ricordiamoci che gli Ebrei sono tuttora alla caccia dei carnefici nazisti, mentre i nostri 9.890 compagni di guerra assassinati sono tuttora in attesa che giustizia sia fatta. Inchiniamoci quindi di fronte a questi nostri eroi che dopo aver scelto spontaneamente da che parte stare e aver rifiutato, sempre spontaneamente, di non cedere le armi con disonore hanno dato dignità al nostro Paese sacrificando la loro vita.

Ebbene di fronte a questa infinita commozione io mi inchino verso questi nostri eroi caduti in nome della Patria, che non hanno avuto giustizia. Cerchiamo di ricordarli almeno noi che la guerra l’abbiamo fatta perché qualcuno ce l’ha imposta.

 

Mi associo al presidente Marco Pazzini che ha aperto i lavori di questa assemblea, ed esprimo a nome del presidente nazionale della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane, promotrice di questo incontro sen. Gerardo Agostini, e di Alfredo Cascone, presidente del Comitato milanese, un sentito ringraziamento alle autorità civili e militari che hanno voluto sottolineare con la loro presenza una doverosa riconoscenza ai caduti della Divisione Acqui, protagonisti di una pagina di storia nella gloriosa e tragica vicenda che nel settembre 1943 vide l'eroica resistenza dei soldati italiani alle forze armate tedesche.

Il nostro saluto commosso va ai sopravvissuti e ai familiari dei caduti.

Ai sindaci che hanno voluto essere presenti con i loro gonfaloni decorati al V.M. che simboleggiano le gesta eroiche e il sacrificio anche della vita dei loro concittadini per una Italia libera e democratica e per il riscatto della nazione dopo la lunga notte del fascismo.

Il nostro saluto al prefetto Bruno Ferrante, al sindaco Gabriele Albertini, al generale Luciano Forlani comandante del presidio militare, al questore Giovanni Finazzo, all'assessore Regionale preposto alla Cultura Ettore Albertoni, al presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, alle M.O. al V.M. Vincenzo Capelli, gen. Alberto Li Gobbi e Giovanni Pesce; a tutti coloro che hanno voluto sottolineare con la partecipazione dei medaglieri, dei labari e delle bandiere delle associazioni combattentistiche e d'arma, delle associazioni dei partigiani e dei deportati, la loro significativa presenza.

Ci ritroviamo oggi per rendere omaggio alla memoria dei combattenti di Cefalonia e per ricordare agli immemori che alla data dell’8 settembre 1943 le truppe italiane occupavano parte della Francia, la Jugoslavia, l'Albania, la Grecia, le Isole dell'Egeo e la Corsica. Era questo l'immenso arco lungo il quale era disseminato l'esercito italiano nel momento più tragico della nostra storia nazionale, in un intricato groviglio di avvenimenti, quando, venuta meno una direttiva generale di difesa, si svolse il dramma delle nostre Forze Armate all'estero, prese avvio la Resistenza e diverse unità italiane attaccarono e si batterono anche per riabilitare il nome dell'Italia dinanzi agli occhi degli altri popoli.

È pur vero che in diverse località vi fu la resistenza disperatamente chiusa in se stessa, senza possibilità di sviluppo, che lasciò solo l'eredità del sacrificio, ma vi fu anche quella destinata a prolungarsi nel tempo, ossia vi fu il susseguirsi su una scacchiera così vasta di situazioni diverse, di fatti, che costituirono le radici della identità della nazione italiana e della coscienza democratica che si andava sempre più risvegliando.

Chi ha vissuto o conosce quelle pagine di storia sa che vi furono anche eventi che portarono i militari italiani ad unirsi e ad essere inquadrati nelle formazioni partigiane dei diversi paesi, sconfiggendo lo smarrimento, ritrovando la fierezza della loro italianità, divenendo, da reparti di occupazione, combattenti della libertà ed ambasciatori di pace.

Il prezzo pagato fu proporzionato alla nobiltà dell'impresa: oltre 35.000 soldati italiani, volontari per la libertà dei popoli, caddero sul campo.

Quei nostri morti restituirono onore e dignità al nome dell’Italia all’estero e coloro che sopravvissero agli aspri combattimenti delle prime settimane successive all’armistizio, alle orrende stragi e alle deportazioni, presero in mano la bandiera della libertà e continuarono fino in fondo la lotta. Ciò avveniva mentre entro i confini nazionali, militari e operai, studenti e intellettuali, sceglievano la strada della lotta e della montagna, ed altri si organizzavano nelle città ove si costituivano i primi nuclei di gappisti e sappisti. ,

Ed ancora vi fu la vicenda dei 600.000 internati militari nei lager tedeschi. Forse il termine "internato" non suggerisce alle giovani generazioni particolari immagini di valore. Vi è chi lo vede come una specie di limbo, pallido e squallido, e non riesce a capire quali meriti possa rivendicare dalla storia. Ma è sufficiente ricostruire gli accadimenti, le umiliazioni subite dai militari che, trovatisi sbandati, furono catturati dai tedeschi, avviati alla deportazione ove conobbero il dramma dell'internamento nei lager, senza poter avere, per il loro status, la possibilità di invocare l'applicazione delle garanzie giuridiche internazionali.

Si deve conoscere il dramma degli internati, come affrontarono le condizioni di vita più avvilenti per un essere umano, come e quali sacrifici sopportarono nei lager ove oltre 50.000 italiani lasciarono la loro giovane vita. Vi furono le Unità italiane del risorto esercito che dalla disperata e sanguinosa battaglia di Montelungo alla Linea Gotica, avanzarono, combattendo verso il Po e le città del Centro-Nord. Erano il simbolo dell’Italia che risorgeva con il suo popolo, con le sue nuove e diplomatiche Istituzioni, era la testimonianza che la libertà non veniva regalata ma conquistata con grande sacrificio dai suoi combattenti per la Libertà e dai giovani soldati del rinato esercito italiano.

Avanzavano combattendo e con il Tricolore levato, ripulito dall'onta e dalla vergogna del fascismo, a dimostrazione anche per gli alleati che la libertà non ci veniva regalata ma conquistata con enorme sacrificio di sangue.

È in ispecie nella tragica vicenda della Divisione Acqui che si ritrova sintetizzato il dramma dei militari italiani dislocati all'estero nel momento dell'armistizio, d è questo il motivo e la ragione per cui siamo qui riuniti. Ciò in quanto quello di Cefalonia fu un episodio che si staccò da ogni altro per il profondo significato, che ebbe la straordinaria volontà di rivolta che contemporaneamente infiammò l'animo di migliaia di uomini e che fu tanto forte da avere ragione d'ogni elementare istinto di conservazione.

Un eroico furore dominò tutta l'epopea di Cefalonia ed elevò il sacrificio della Divisione Acqui sul piano della leggenda. Ma sarebbe davvero sbagliato fare di questa storia scritta da una Divisione di soldati un fatto puramente passionale, come alcune volte si è tentato di fare. Io ritengo che proprio dalla epopea di Cefalonia emerga che sempre, ma in specie in guerra, il soldato è solo in parte quello che i regolamenti e l’addestramento vorrebbero: sotto la divisa rimane l’uomo che con la sua infinita problematica ed insopprimibili aspirazioni, con le sue grandi o piccole idealità.

È certo che, al di là di ogni meschina speculazione, Cefalonia rimane l'episodio più tragico e più fulgido di tutta la Resistenza italiana all'estero, e testimoniò all'Italia e al mondo la volontà di riscossa che animava i nostri soldati. A Cefalonia morirono 9.000 soldati italiani e le loro ossa furono abbandonate insepolte nell'isola perché, come si espresse all'epoca il comando della Wermacht: "I ribelli italiani non meritano sepoltura". Sarà solo la pietà dei greci che, più tardi, radunerà quelle spoglie in primitivi tumuli.

Ed allora abbiamo tutti il dovere, al di là di ogni calcolo o furbizia politica, di ogni convenienza e opportunità, identificata anche nella Realpolitik, come purtroppo è avvenuto, di attuare le necessarie iniziative affinché i caduti della Divisione Acqui ed i superstiti abbiano sotto ogni aspetto la giusta e imperitura gratitudine e l'omaggio della nazione e degli italiani.

Nel concludere vorrei rivolgermi alle giovani generazioni ed in ispecie ai giovani militari, per dire loro che non è cosa meschina ma alta e nobile tramandare gli accadimenti che investono la storia patria ed impedire così che la memoria collettiva vada dispersa nel deserto della storia ove, per alcuni, ogni cosa è piatta e uniforme, è uguale all'altra, ossia una cosa vale l'altra.

Invece no, sappiamo che la storia è fatta di tanti momenti che non hanno lo stesso peso e la stessa natura, e sappiamo che la storia non può e non deve essere assoggettata agli interessi politici di un particolare momento. Così come deve essere rintracciata nella memoria e nella coscienza collettiva la matrice dolorosa e drammatica, ma anche eroica e luminosa della Resistenza e delle istituzioni democratiche dell’Italia.

Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_cascone.htm


Il sacrificio della Divisione Acqui, Milano 20.09.2000
Intervento di Gerardo Agostani
presidente nazionale della Confederazione tra le Associazioni combattentistiche e partigiane.

Proprio in questi giorni, potremmo dire in queste ore, cinquantasette anni fa, nell'isola di Cefalonia si consumava il sacrificio della Divisione Acqui. A distanza di tanti anni siamo qui per ricordare quella tragedia e trarne ancora una volta insegnamento. Non tanto per noi, ormai anziani, ma soprattutto per i giovani, per le nuove generazioni che troppo spesso non conoscono, perché nessuno glielo ha insegnato, quanti sacrifici è costata la conquista della libertà e delle istituzioni democratiche.

Il mondo combattentistico ha memoria lunga: oggi vuole riportare alla mente degli immemori, e insegnare ai giovani che la ignorano, una pagina gloriosa della nostra storia, scritta con il sangue di soldati al servizio dell’Italia. E non basta: il 28 settembre saremo a Cefalonia con una delegazione di parlamentari appartenenti a tutti gli schieramenti politici. Deporremo una corona d'alloro al cippo che ricorda i caduti della Acqui. Un gesto significativo che conferma la volontà di tutti gli italiani di superare ogni lacerazione, a oltre 50 anni dalla fine dei conflitto, rendendo onore a quanti immolarono la vita per la Patria.

Quello della Divisione Acqui è uno dei primi episodi di resistenza organizzata e uno dei pochi che ha visto protagonista una grande unità delle Forze Armate italiane contro l'esercito nazista, all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Mai un così elevato numero di uomini, alcuni dei quali - voglio sottolinearlo - giovanissimi, scelsero in piena coscienza la via dei supremo sacrificio.

Undicimilacinquecento soldati insieme con i loro ufficiali decisero liberamente di affrontare un combattimento impari, contro un nemico feroce, preponderante per uomini e mezzi.

Fra il 13 e il 28 settembre 1943 si compie l'eccidio dell'intera divisione che presidia le isole di Cefalonia e Corfù, di alto valore strategico a causa della loro posizione geografica. Con appassionate rievocazioni lo hanno ricordato in questi lunghi anni i superstiti di quella tragedia: padre Formato, Lorenzo Apollonio, Amos Pampaloni. Memorie viventi di quei giorni terribili.

L’8 settembre 35 divisioni italiane si trovano fuori dei territorio nazionale, impegnate nell'occupazione dei Balcani e delle isole dell'Egeo. Lasciati all'oscuro dell'evolversi della situazione, i comandanti apprendono dell'armistizio ascoltando la radio. Inquadrata nell'Undicesima Armata operante in Grecia, la Divisione Acqui è agli ordini dei generale Antonio Gandin, insignito dell'Ordine Militare di Savoia, ben conosciuto dai tedeschi che lo avevano a loro volta decorato e indicato come possibile comandante delle forze dell'Asse nei Balcani. Nessuna comunicazione gli giunge da Roma. Gandin riceve un radiogramma dei generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell'Undicesima Armata con l'ordine di non assumere iniziative contro i tedeschi, ma di reagire a eventuali aggressioni, in linea con le direttive emanate dal governo Badoglio, di per sé alquanto nebulose.

Il giorno dopo, 9 settembre, Vecchiarelli, che i tedeschi considerano "un buon amico", sottoscrive con loro un accordo e dispone la sostituzione dei reparti italiani con forze germaniche alle quali dovranno essere consegnate le armi collettive, le artiglierie e le rispettive munizioni.

La contraddittorietà degli ordini ricevuti e il totale stato di insicurezza in cui si sarebbero trovate le sue truppe, consegnando le armi, spingono Gandin a intavolare una trattativa con il comandante tedesco, il tenente colonnello Hansen Barge.

Tre le alternative:

·                     consegnare le armi, subito scartata perché, come visto, avrebbe significato la resa incondizionata e la perdita di ogni onorabilità, anche nei confronti della generosa popolazione di Cefalonia;

·                     combattere a fianco dei tedeschi, altrettanto improponibile, dati gli ordini dei governo, conseguenti alla firma dell'armistizio;

·                     combattere contro i tedeschi, eseguendo il dettato dei proclama di Badoglio che parla di reazione "eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".

Gandin prende tempo, diluisce per quanto è possibile i colloqui con Barge, tenta di mettersi in contatto con un comando superiore diverso da quello dell’Undicesima Armata, raccoglie informazioni per valutare la situazione, alla ricerca di una soluzione onorevole per non cedere le armi e salvare la vita degli uomini affidati al suo comando.

Fra i fanti e gli ufficiali della Acqui intanto serpeggia l'ostilità verso l'ex alleato, a causa delle prepotenze e delle sopraffazioni di cui è protagonista.

La situazione si deteriora con il trascorrere delle ore. Il generale Gandin è informato dei progressivo rafforzamento dei contingente germanico con uomini e mezzi. Il 13 settembre il colonnello Barge pone l'ultimatum: consegna delle armi entro 24 ore.

Bisogna decidere e in fretta. Fra gli uomini della Acqui c'è insofferenza per la mancata ferma risposta all'ultimatum tedesco. Il generale Gandin recepisce i sentimenti delle sue truppe e la mattina dei 14 settembre accade un fatto senza precedenti nella storia militare: ufficiali, sottufficiali e soldati sono chiamati a pronunciarsi sulla condotta delle operazioni belliche e di conseguenza a scegliere il proprio destino. La memoria dei sopravvissuti ci ha tramandato l'esito di questa libera votazione su un quesito decisivo: arrendersi o combattere contro i tedeschi. Da tutti i reparti l'indicazione è univoca, determinata: "Contro i tedeschi".

E proprio allora, da Brindisi, arriva il messaggio dei Comando Supremo: "Resistere con le armi all'intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia, Corfù e altre isole".

Immediata e violentissima la reazione nazista. Senza aspettare la scadenza dell'ultimatum, il comando tedesco fa bombardare le nostre linee. Le conseguenze sono disastrose: centinaia di vittime e lo sconvolgimento dei piano d'attacco elaborato da Gandin e dai suoi più stretti collaboratori.

Privi di appoggio aeronavale, inferiori per uomini e mezzi, con il solo supporto di tre batterie costiere della Marina e il rinforzo di un reparto della Guardia di Finanza, gli uomini della Divisione Acqui tengono testa al nemico per sette giorni, combattendo con la consapevolezza che il trascorrere dei tempo non gioca a loro favore, e le possibilità di vittoria si riducono di minuto in minuto.

Ogni progresso però comporta per le truppe naziste perdite altissime. Allora, dove non prevalgono le armi, il comando germanico tenta con le pressioni psicologiche, nella speranza di provocare defezioni nei reparti: volantini con la promessa di un immediato ritorno in Patria per quanti si arrenderanno spontaneamente sono lanciati sulle linee italiane. Non trovano risposta.

Gli scontri sono già costati alla Acqui oltre duemila caduti, quando la mattina dei 22 settembre il generale Gandin decide di accettare la resa senza condizioni. Un atto che significa cessazione delle ostilità, ma anche garanzie precise nei confronti dei prigionieri, dei feriti e dei malati inermi, dei personale sanitario, medici e infermieri.

Gli ordini trasmessi da Berlino sono espliciti: fucilare chiunque avesse resistito. In 48 ore i reparti tedeschi, con inaudita ferocia, passano per le armi oltre 5.000 uomini. E poiché gli ufficiali sono stati i principali animatori della resistenza, radunano 265 superstiti alla "Casetta Rossa" e li falciano a raffiche di mitragliatrice a Capo San Teodoro. Primo a cadere è il generale Antonio Gandin, al quale sarà poi concessa la Medaglia d'Oro alla memoria.

Gli scampati alle fucilazioni vengono imbarcati su navi tedesche per essere inviati nei lager. Una volta al largo, i sommergibili alleati colpiscono con i siluri le navi nemiche con a bordo i prigionieri. E aerei alleati, destino beffardo, mitragliano a volo radente i naufraghi.

Caduta Cefalonia, è investita Corfù, presidiata da altri reparti della Acqui, comandati dal colonnello Luigi Lusignani. Due giorni di combattimenti, poi la resa e nuovi massacri nuove fucilazioni, Lusignani in testa.

Fin qui la storia, i fatti, secondo verità, così come testimoniano i superstiti della Acqui, la popolazione di Cefalonia che li aiutò, gli stessi rapporti inviati a Berlino dai massacratori tedeschi.

Con l'aggiunta di una riflessione. Cefalonia racchiude e anticipa l'intera stagione della Resistenza contro il nazismo: dal rifiuto della collaborazione con i tedeschi alla lotta partigiana, alla ricostituzione dell'Esercito italiano che affiancherà gli Alleati da Mignano Montelungo alla Liberazione. Anticipa la ritrovata capacità di decidere con la partecipazione di tutti, la libertà di scegliere il proprio destino con la consapevolezza dei sacrificio da affrontare.

E dopo Cefalonia altri massacri per rappresaglia devasteranno l'Italia: Boves, Fosse Ardeatine, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, solo per ricordarne alcuni. Un prezzo altissimo, pagato da uomini coraggiosi e dalle popolazioni che parteciparono alla lotta. Il prezzo del riscatto morale e civile per realizzare la Repubblica, istituzioni libere e democratiche, capaci di assicurare una lunga stagione di pace alle nuove generazioni.

Un esempio che abbiamo il dovere di tramandare e insegnare ai giovani, con tutti mezzi, a partire dalle scuole, affinché Cefalonia non sia più dimenticata e non debba più ripetersi.

Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_agostini.htm


Il sacrificio della Divisione Acqui, Milano 20.09.2000

Intervento di Tino Casali

vice presidente nazionale dell'ANPI.

Mi associo al presidente Marco Pazzini che ha aperto i lavori di questa assemblea, ed esprimo a nome del presidente nazionale della Confederazione Italiana fra le Associazioni Combattentistiche e Partigiane, promotrice di questo incontro sen. Gerardo Agostini, e di Alfredo Cascone, presidente del Comitato milanese, un sentito ringraziamento alle autorità civili e militari che hanno voluto sottolineare con la loro presenza una doverosa riconoscenza ai caduti della Divisione Acqui, protagonisti di una pagina di storia nella gloriosa e tragica vicenda che nel settembre 1943 vide l'eroica resistenza dei soldati italiani alle forze armate tedesche.

Il nostro saluto commosso va ai sopravvissuti e ai familiari dei caduti.

Ai sindaci che hanno voluto essere presenti con i loro gonfaloni decorati al V.M. che simboleggiano le gesta eroiche e il sacrificio anche della vita dei loro concittadini per una Italia libera e democratica e per il riscatto della nazione dopo la lunga notte del fascismo.

Il nostro saluto al prefetto Bruno Ferrante, al sindaco Gabriele Albertini, al generale Luciano Forlani comandante del presidio militare, al questore Giovanni Finazzo, all'assessore Regionale preposto alla Cultura Ettore Albertoni, al presidente del Consiglio provinciale Roberto Caputo, alle M .O. al V.M. Vincenzo Capelli, gen. Alberto Li Gobbi e Giovanni Pesce; a tutti coloro che hanno voluto sottolineare con la partecipazione dei medaglieri, dei labari e delle bandiere delle associazioni combattentistiche e d'arma, delle associazioni dei partigiani e dei deportati, la loro significativa presenza.

Ci ritroviamo oggi per rendere omaggio alla memoria dei combattenti di Cefalonia e per ricordare agli immemori che alla data dell’8 settembre 1943 le truppe italiane occupavano parte della Francia, la Jugoslavia, l'Albania, la Grecia, le Isole dell'Egeo e la Corsica. Era questo l'immenso arco lungo il quale era disseminato l'esercito italiano nel momento più tragico della nostra storia nazionale, in un intricato groviglio di avvenimenti, quando, venuta meno una direttiva generale di difesa, si svolse il dramma delle nostre Forze Armate all'estero, prese avvio la Resistenza e diverse unità italiane attaccarono e si batterono anche per riabilitare il nome dell'Italia dinanzi agli occhi degli altri popoli.

È pur vero che in diverse località vi fu la resistenza disperatamente chiusa in se stessa, senza possibilità di sviluppo, che lasciò solo l'eredità del sacrificio, ma vi fu anche quella destinata a prolungarsi nel tempo, ossia vi fu il susseguirsi su una scacchiera così vasta di situazioni diverse, di fatti, che costituirono le radici della identità della nazione italiana e della coscienza democratica che si andava sempre più risvegliando.

Chi ha vissuto o conosce quelle pagine di storia sa che vi furono anche eventi che portarono i militari italiani ad unirsi e ad essere inquadrati nelle formazioni partigiane dei diversi paesi, sconfiggendo lo smarrimento, ritrovando la fierezza della loro italianità, divenendo, da reparti di occupazione, combattenti della libertà ed ambasciatori di pace.

Il prezzo pagato fu proporzionato alla nobiltà dell'impresa: oltre 35.000 soldati italiani, volontari per la libertà dei popoli, caddero sul campo.

Quei nostri morti restituirono onore e dignità al nome dell’Italia all’estero e coloro che sopravvissero agli aspri combattimenti delle prime settimane successive all’armistizio, alle orrende stragi e alle deportazioni, presero in mano la bandiera della libertà e continuarono fino in fondo la lotta. Ciò avveniva mentre entro i confini nazionali, militari e operai, studenti e intellettuali, sceglievano la strada della lotta e della montagna, ed altri si organizzavano nelle città ove si costituivano i primi nuclei di gappisti e sappisti. ,

Ed ancora vi fu la vicenda dei 600.000 internati militari nei lager tedeschi. Forse il termine "internato" non suggerisce alle giovani generazioni particolari immagini di valore. Vi è chi lo vede come una specie di limbo, pallido e squallido, e non riesce a capire quali meriti possa rivendicare dalla storia. Ma è sufficiente ricostruire gli accadimenti, le umiliazioni subite dai militari che, trovatisi sbandati, furono catturati dai tedeschi, avviati alla deportazione ove conobbero il dramma dell'internamento nei lager, senza poter avere, per il loro status, la possibilità di invocare l'applicazione delle garanzie giuridiche internazionali.

Si deve conoscere il dramma degli internati, come affrontarono le condizioni di vita più avvilenti per un essere umano, come e quali sacrifici sopportarono nei lager ove oltre 50.000 italiani lasciarono la loro giovane vita. Vi furono le Unità italiane del risorto esercito che dalla disperata e sanguinosa battaglia di Montelungo alla Linea Gotica, avanzarono, combattendo verso il Po e le città del Centro-Nord. Erano il simbolo dell’Italia che risorgeva con il suo popolo, con le sue nuove e diplomatiche Istituzioni, era la testimonianza che la libertà non veniva regalata ma conquistata con grande sacrificio dai suoi combattenti per la Libertà e dai giovani soldati del rinato esercito italiano.

Avanzavano combattendo e con il Tricolore levato, ripulito dall'onta e dalla vergogna del fascismo, a dimostrazione anche per gli alleati che la libertà non ci veniva regalata ma conquistata con enorme sacrificio di sangue.

È in ispecie nella tragica vicenda della Divisione Acqui che si ritrova sintetizzato il dramma dei militari italiani dislocati all'estero nel momento dell'armistizio, d è questo il motivo e la ragione per cui siamo qui riuniti. Ciò in quanto quello di Cefalonia fu un episodio che si staccò da ogni altro per il profondo significato, che ebbe la straordinaria volontà di rivolta che contemporaneamente infiammò l'animo di migliaia di uomini e che fu tanto forte da avere ragione d'ogni elementare istinto di conservazione.

Un eroico furore dominò tutta l'epopea di Cefalonia ed elevò il sacrificio della Divisione Acqui sul piano della leggenda. Ma sarebbe davvero sbagliato fare di questa storia scritta da una Divisione di soldati un fatto puramente passionale, come alcune volte si è tentato di fare. Io ritengo che proprio dalla epopea di Cefalonia emerga che sempre, ma in specie in guerra, il soldato è solo in parte quello che i regolamenti e l’addestramento vorrebbero: sotto la divisa rimane l’uomo che con la sua infinita problematica ed insopprimibili aspirazioni, con le sue grandi o piccole idealità.

È certo che, al di là di ogni meschina speculazione, Cefalonia rimane l'episodio più tragico e più fulgido di tutta la Resistenza italiana all'estero, e testimoniò all'Italia e al mondo la volontà di riscossa che animava i nostri soldati. A Cefalonia morirono 9.000 soldati italiani e le loro ossa furono abbandonate insepolte nell'isola perché, come si espresse all'epoca il comando della Wermacht: "I ribelli italiani non meritano sepoltura". Sarà solo la pietà dei greci che, più tardi, radunerà quelle spoglie in primitivi tumuli.

Ed allora abbiamo tutti il dovere, al di là di ogni calcolo o furbizia politica, di ogni convenienza e opportunità, identificata anche nella Realpolitik, come purtroppo è avvenuto, di attuare le necessarie iniziative affinché i caduti della Divisione Acqui ed i superstiti abbiano sotto ogni aspetto la giusta e imperitura gratitudine e l'omaggio della nazione e degli italiani.

Nel concludere vorrei rivolgermi alle giovani generazioni ed in ispecie ai giovani militari, per dire loro che non è cosa meschina ma alta e nobile tramandare gli accadimenti che investono la storia patria ed impedire così che la memoria collettiva vada dispersa nel deserto della storia ove, per alcuni, ogni cosa è piatta e uniforme, è uguale all'altra, ossia una cosa vale l'altra.

Invece no, sappiamo che la storia è fatta di tanti momenti che non hanno lo stesso peso e la stessa natura, e sappiamo che la storia non può e non deve essere assoggettata agli interessi politici di un particolare momento. Così come deve essere rintracciata nella memoria e nella coscienza collettiva la matrice dolorosa e drammatica, ma anche eroica e luminosa della Resistenza e delle istituzioni democratiche dell’Italia.

Dal sito: http://www.anpi.it/acqui_casali.htm


Corriere della Sera
Rassegna Stampa 19 dicembre 2000
INCHIESTA
Il capitano Pampaloni:

"Nel dopoguerra nessuno volle ascoltarci, nemmeno in Italia" "La raccolta di firme per ricordare le migliaia di militari italiani massacrati a Cefalonia dalla Wehrmacht dopo l'8 settembre del '43 è un atto importante, ma rimaniamo perplessi sulla sua efficacia". Amos Pampaloni e Marcello Venturi, per anni gli unici a conservare, attraverso strade diverse, la memoria storica di quell'episodio di guerra, uno dei primi della Resistenza, manifestano entrambi il loro pessimismo sulle reazioni dell'opinione pubblica e dei governi italiano e tedesco, ai quali è rivolto l'appello dei fautori della raccolta. Sono trascorsi 57 anni, troppi, senza che da parte delle istituzioni italiane fossero prese iniziative. E le scuse dei tedeschi, sollecitate nell'appello, per quel massacro compiuto contro militari inermi, avrebbero il sapore di una semplice formalità. Amos Pampaloni, fiorentino di 90 anni, era capitano d'artiglieria e fu lui a prendere l'iniziativa contro i tedeschi ordinando alla sua batteria di far fuoco. Lo conferma la motivazione della medaglia d'argento assegnatagli: "Fui il primo italiano a sparare contro i tedeschi e ad animare la Resistenza a Cefalonia".

Dopo la resa, messo al muro dai nemici per essere fucilato insieme ad altri commilitoni, rimase ferito e si salvò fingendosi morto. Venne aiutato dagli abitanti dell'isola che lo curarono e lo misero in contatto con i partigiani. "Sono anni che i reduci di Cefalonia chiedono al governo di ottenere almeno la Croce di cavalieri al merito come quella di Vittorio Veneto assegnata ai combattenti della Prima guerra mondiale - dice amareggiato - ma i ministri e i parlamentari li hanno sempre ignorati.

Ormai è tardi per far qualcosa". Marcello Venturi, scrittore e storico, fu il primo, con il suo libro Bandiera bianca a Cefalonia, pubblicato nel '63 da Feltrinelli, a descrivere quel massacro. "Mi occupai di Cefalonia dopo aver letto un articolo di Pampaloni - racconta -; mi recai sull'isola e riuscii a ricostruire quel drammatico episodio". Dopo quell'opera, su Cefalonia è ripiombato il silenzio fino a quando, la scorsa estate, una troupe americana si è recata nell'isola dello Jonio per girare un film ispirato a un romanzo dello scrittore inglese Louis De Bernière. Il libro, Captain Corellìs mandolin (pubblicato in Italia da Longanesi col titolo Una vita in debito), ricostruisce quell'episodio descrivendo gli italiani con i luoghi comuni cari a certi inglesi: poco coraggiosi, amanti della musica e delle donne. "È servito però ad attirare l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica su quella tragedia", afferma Venturi. Infatti ne hanno parlato i giornali; la Rai ha trasmesso alcuni servizi e pochi mesi dopo è uscito il libro di Alfio Caruso Italiani dovete morire (Longanesi), che descrive nei particolari il dramma dei militari italiani nell'isola. Proprio nel corso della presentazione ad Acqui Terme dell'opera di Caruso, è nata l'iniziativa di presentare la petizione per la raccolta delle 11.700 firme, un numero che corrisponde ai militari della divisione "Acqui" di stanza a Cefalonia. La battaglia era scoppiata il 13 settembre dopo che il comando tedesco aveva imposto agli italiani di cedere le armi. C'erano stati alcuni giorni di trattative promosse dai tedeschi, il cui presidio si trovava in difficoltà per scarsità di effettivi (uno a dieci rispetto agli ex alleati) e mezzi. In un primo tempo gli italiani, comandati dal generale Gandin, manifestarono incertezza soprattutto perché da Badoglio era arrivato l'ordine generico di non cedere, mentre il comando di Atene aveva ordinato di arrendersi. Gli scontri scoppiarono perché, nonostante le trattative in corso, i tedeschi incominciarono a fare affluire rinforzi proprio quando Gandin aveva ordinato alle sue truppe di abbandonare le posizioni strategiche. La resa avvenne dieci giorni dopo: gli italiani caduti nei combattimenti furono 1300 e più di 6000, compreso il comandante, vennero massacrati dalla Wehrmacht, nonostante avessero deposto le armi. Soldati con le mani alzate uccisi a colpi di mitragliatrice; centinaia di feriti scaraventati fuori dagli ospedali e trucidati. Degli scampati, circa 3000 morirono nelle stive delle navi affondate dalle mine durante il trasporto al Pireo. L'eccidio fu voluto dal generale Hubert Lanz, comandante dell'armata tedesca dell'Epiro, che in seguito si giustific= affermando che l'ordine venne direttamente da Hitler. A 57 anni da quel massacro le migliaia di vittime non hanno ancora ottenuto giustizia. Di Cefalonia si occupò il Tribunale di Norimberga ma solo perché Lanz comparve come imputato per altri crimini commessi nell'Epiro.

Nelle sue deposizioni piene di falsità, il generale definì i militari italiani non combattenti, ma "ribelli" e "franchi tiratori" che andavano quindi fucilati. Fu poi la Procura generale di Dortmund a occuparsi dell'eccidio con un'istruttoria aperta dopo l'uscita del libro di Venturi. Il procuratore di Stato Nachtweh ascoltò 231 testimoni, tutti tedeschi tranne due italiani, Venturi e il cappellano militare Ghilardini, e due greci. Dopo quattro anni, nel '69 fu emanata la sentenza di archiviazione. Pochi giorni prima il quotidiano tedesco Die Welt aveva criticato duramente il libro di Venturi definendolo "la solita falsa campagna contro l'esercito tedesco". Ma se l'archiviazione di Dortmund venne data per scontata, è sconcertante il fatto che in Italia non ci furono reazioni. La nostra magistratura si era mossa prima, ma in senso contrario. L'unico atto giudiziario su Cefalonia era stato promosso nel '54 per iniziativa di Roberto Triolo, un giudice genovese che aveva perso il figlio in quell'isola. In seguito alle pressioni del magistrato, dopo una lunga vicenda giudiziaria, la Procura militare nel '57 chiese il rinvio a giudizio di Pampaloni e di altri ufficiali italiani per aver compiuto atti ostili contro i tedeschi e aver quindi provocato la loro reazione. Ma alla fine prevalse il buonsenso e il giudice istruttore prosciolse gli imputati. "L'ex ministro Taviani ha spiegato recentemente che il governo tacque per non irritare la Repubblica federale tedesca, alleata preziosa durante la Guerra fredda - ricorda Venturi -. Ma secondo quella logica non avrebbero dovuto essere ricordate neanche le vittime delle Ardeatine, di Marzabotto e di Sant'Anna di Stazzema".

Dal sito: http://www.iue.it/LIB/SISSCO/racine/12-00/19-12-00.html


Cefalonia: l’ex Ministro ammette “ho insabbiato le indagini”
Roma - La strage di Cefalonia, nella quale furono massacrati dalle truppe tedesche 6.500 soldati italiani, fu insabbiata nell'autunno del 1956 in nome della ragione di Stato. Lo riconosce il senatore a vita Paolo Emilio Taviani, 88 anni, all'epoca ex ministro democristiano della Difesa, in un'intervista al settimanale "L'Espresso", che la pubblica nel numero in edicola domani. "Io debbo rispondere soltanto di una sigla apposta in calce a una lettera del mio collega Gaetano Martino", puntualizza Taviani, presidente dell'Associazione dei partigiani cattolici, dopo aver appreso della pubblicazione da parte dell'"Espresso" dell'inedita corrispondenza tra lui e l'allora ministro degli Esteri Martino con la quale si decideva di non perseguire i responsabili dell'eccidio consumato sull'isola dello Ionio tra il 20 e il 22 settembre 1943.
"Non intendo minimizzare. Il mio consenso contribuì certamente a creare quella che lei (il giornalista Franco Giustolisi, suo intervistatore, ndr) definisce la sepoltura della giustizia. Dire che oggi lo rifarei - dichiara Taviani - sarebbe una gratuita provocazione. E cercare di far capire che forse in quei momenti convulsi non compresi appieno il significato di quella decisione, sarebbe come cercare a posteriori delle giustificazioni impossibili. La verità è che la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise, anche a costo di...". A Cefalonia i soldati della divisione Aqui furono selvaggiamente massacrati dopo essersi arresi. L'ordine, impartito da Hitler, venne eseguito con determinazione inumana. "E' stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato", disse il rappresentante dell'accusa al processo di Norimberga. Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti si batterono perchè i 31 militari tedeschi responsabili di quell'eccidio venissero processati. Niente da fare, la politica pose il vieto, risulta dalle carte insabbiate consultate da "L'Espresso". Era l'ottobre del 1956: Gaetano Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrisse a Taviani, ministro della Difesa, proponendogli in sostanza l'affossamento di ogni percorso di giustizia. E ciò in nome della risurrezione della Wermacht, (esercito tedesco), necessaria alla Nato in funzione anti-Urss.
"Aveva anche ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per l'orrendo crimine di Cefalonia - riconosce oggi Taviani - avrebbe colpito l'opinione pubblica impedendo forse per molti anni la possibilità per l'esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo. Io sono stato uno dei precursori del riarmo della Germania. Sia ben chiaro che questo non lo dico ora che vengo chiamato in causa dopo la pubblicazione del carteggio tra me e Martino: lo testimoniano tanti articoli, tante dichiarazioni sin dal 1953". "Non cerco alibi o scusanti, dico come stanno le cose a guidarmi fu la ragione di Stato", aggiunge il senatore a vita. L'ex ministro della Difesa nega di aver mai dato l'ordine di insabbiare i fascicoli di altri crimini nazisti, custoditi nell' "armadio della vergogna" nella sede della Procura generale militare a Roma, dove "L'Espresso" ha potuto consultare la documentazione inedita che dimostra che in molti casi furono accertati i responsabili ma non perseguiti. "La tragedia di Cefalonia, orribile, feroce, inumana, era stata provocata dalla guerra, era una coda della guerra, un qualcosa che era avvenuto tra militari. Ben diverso lo sterminio di civili, bambini, donne, vecchi, uomini, gente indifesa, uccisa spesso neanche per rappresaglia. No, io non detti quell'ordine - assicura Paolo Emilio Taviani -, non lo avrei mai dato neanche per ragioni di Stato".

Secondo Taviani, tuttavia, la decisione di insabbiare i crimini nazisti "dovrebbe essere stata presa prima" del 1955, quando presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi. "Ma sarei molto sorpreso se emergesse una sua responsabilità", si affretta subito a precisare l'ex ministro democristiano. A una domanda del giornalista de "L'Espresso" circa la possibilità che possa essere stato il suo precedessore alla Difesa, Randolfo Pacciardi, a impartire l'ordine di insabbiamento, Taviani risponde: "Io non penso niente". E poi aggiunge: "So quel che tutti sanno. Pacciardi era un feroce anticomunista. E ministro degli Esteri più o meno dello stesso periodo fu Carlo Sforza, anche lui repubblicano e di comprovata fede atlantico-americana".

"Il senatore Taviani si dovrebbe solo vergognare. E' da tempo che sapevo del suo tacito assenso sull'insabbiamento dell'inchiesta della magistratura militare sull'eccidio di Cefalonia, cosa che oggi rivendica quasi come un'azione meritoria compiuta in nome di una ragione di Stato a mio giudizio incomprensibile". Non usa mezzi termini la medaglia d'argento al valor militare Amos Pampaloni, ex capitano di artigleria della divisione Acqui spedita da Mussolini sull'isola di Cefalonia. A 90 anni Pampaloni, residente a Firenze, è uno dei pochi sopravvissuti alla strage nazista sull'isola greca nello Jonio. "Sono vivo per miracolo, perchè la pallottola che mi sparò il plotone di esecuzione tedesco mi trapassò il collo senza toccare organi vitali", racconta oggi Pampaloni. La storia dell'ex capitano ispirò il romanzo "Bandiera bianca a Cefalonia" di Marcello Venturi, tradotto dal 1963 in poi in sedici lingue. Pampaloni contesta invece il romanzo di Louis de Berniere "Il capitano Corelli" (1994), che a suo giudizio si sarebbe ispirato alla sua vicenda stravolgendo i fatti."E' sorprendente che Taviani abbia consentito un simile insabbiamento, tanto più che egli è stato ed è tuttora presidente dell'Associazione dei partigiani cattolici", ha detto Pampaloni. "Nel 1956 il governo italiano si oppose al proseguimento delle indagini - ha aggiunto l'ex capitano di artigleria - da parte di un magistrato militare che era sulle tracce di una trentina di ufficiali tedeschi che ordinarono l'eccidio d Cefalonia. Ma la cosa ancora più grave è che negli anni Cinquanta non solo fu insabbiata la strage di Cefalonia, ma anche le inchieste di altri 690 crimini nazifascisti".

da Adnkronos del 9 novembre 2000

dal sito: http://www.storiainrete.com/notizie/novembre2000/cefalonia.htm


Cefalonia fa ancora paura
di Amos Pampaloni*

Ad Amos Pampaloni ex capitano della divisione Acqui, superstite di Cefalonia, ferito gravemente dai tedeschi che tentarono di ucciderlo, aiutato dai partigiani greci con in quali poi combatté contro l’invasore, abbiamo chiesto un parere sulla trasmissione condotta da Pippo Baudo riguardante il massacro di Cefalonia.

Non ho certamente apprezzato la trasmissione “Novecento” della sera di lunedì 2 aprile condotta da Pippo Baudo. Non mi è sembrato opportuno parlare pochi minuti del tragico olocausto di Cefalonia fra una canzonetta e l’altra e fra un racconto di vita di un attore e quello di una cantante.

Cefalonia dovrebbe essere ricordata - per rispetto dell’eroismo dei Caduti e del sacrificio dei sopravvissuti miracolosamente - richiamando l’attenzione dei telespettatori sul coraggio e la dignità dei militari della Divisione di fanteria da montagna “Acqui”: combattemmo contro i tedeschi abbandonati dal Governo Badoglio e dagli anglo-americani, andando incontro ad uno sterminio collettivo per gli Stukas che bombardavano e mitragliavano dall’alba alla notte gli italiani e per il barbaro ordine di Hitler di assassinare i prigionieri, dopo la resa.

La mia apparizione nella trasmissione è ripresa da un altro più completo servizio, fatto in occasione del pellegrinaggio nell’isola del presidente della Repubblica Ciampi, e completamente censurato. Questo è avvenuto, secondo me, per evitare che si facesse il minimo accenno al vergognoso insabbiamento dell’inutile richiesta di un procuratore militare di giudicare 32 ufficiali tedeschi ritenuti responsabili del massacro. Furono due ministri del governo Segni di centro destra del 1956, Martino e Taviani a dare l’ordine dell’insabbiamento, anzi del seppellimento nell’Armadio della vergogna di tutte le denunce.

Non si è approfittato, inoltre, nella trasmissione, per ricordare che Cefalonia fu il primo esempio della Resistenza armata ai tedeschi. Lì iniziò un’epopea nuova ed un riscatto per la nostra patria. La guerra di Liberazione è stata combattuta dalle forze armate in Egeo, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia, in Francia, in Italia col corpo italiano di liberazione, con i gruppi di combattimento con militari di professione e di leva nelle file partigiane, con i partigiani, con la marina. E non dimentichiamo i 144.000 internati morti nei lager nazisti.

La Resistenza è un vero e proprio secondo Risorgimento: non è solo patrimonio patriottico delle forze armate e dei partigiani ma è di tutto il popolo italiano dal sud al nord, esclusi pochi sciagurati seguaci di Graziani e Borghese. Lo testimoniano le numerose ricompense al valore militare concesse a civili, a Regioni, a province, a città, a paesi per il determinante aiuto materiale e morale dato ai combattenti della libertà al costo di persecuzioni, arresti, distruzioni, deportazioni nei campi di sterminio e di prigionia.


*) Amos Pampaloni, presidente dell'Associazione Nazionale combattenti e reduci, medaglia d’argento al valore militare, reduce di Cefalonia.

Dal sito: http://www.kwlibri.kataweb.it/polemica/paura_090401.shtml