JOYCE LUSSU alla conquista
di Emilio
Il celebre e avventuroso antifascista
sardo avrebbe compiuto in questi giorni cent'anni: una vita da romanzo.
Ne parliamo con un testimone d'eccezione: sua moglie Joyce. Ecco la loro
storia d'amore e di politica.
Incontrare un mito e innamorarsene non capita
tutti i giorni. Accadde a Joyce Salvadori sessant'anni fa. Il mito aveva
il fisico asciutto e i modi cavallereschi di Emilio Lussu. Tre settimane
fa, il 4 dicembre, Emilio avrebbe compiuto cent'anni. Joyce, che di anni
ne ha 78, lo ricorda a suo modo, parlandone come se fosse seduto tra noi,
nel gaio appartamentino di loro figlio, a Trastevere, dove lei soggiorna
quando passa per Roma. Con lo stesso tono spiccio con cui parla, indifferentemente,
delle caramelle alla frutta scartate con meticolosità golosa e di
Santa Caterina da Siena (Una pazza virulenta al fianco di quel delinquente
di papa Urbano), delle sue ortensie di San Tommaso, nelle Marche, e di
Carlo Rosselli, di Giaime Pintor (giovanotto tanto intelligente ma un tantino
imbranato) e dei litigi prandiali, a Palazzo Filomarino, con Benedetto
Croce: Perché io volevo la rivoluzione e lui no. Gli occhi sono
quelli d'un tempo: lame azzurre che trapassano l'interlocutore con la loro
ironia.
Vuoi sapere del nostro primo incontro? Fu a Ginevra, al numero 20 di rue
Plentamour, in casa di Giuseppe Chiostergi, un repubblicano marchigiano
che da qualche anno viveva in esilio. Era il 1932: io avevo 20 anni, Emilio
42. Nel manico della mia valigia di fibra, tenevo nascosto il documento
segreto che mi era stato consegnato per Emilio dai compagni di Giustizia
e Libertà. Lui mi scrutava con quei suoi occhi neri, profondi, occhi
che non ho più ritrovato neppure tra la sua gente. E gli zigomi
esotici, quasi berberi, alti sul viso affilato. Emilio mi apparve subito
un uomo di grande fascino, elegante nel tratto, conversatore brillante
e assai ironico, cavalleresco fino alla seduzione. Fu il colpo di fulmine.
Nel primo sguardo c'era già tutto: dall'intensa attrazione fisica
al rispetto sincero. Non sa quel che vuole ma lo vuole subito Emilio e
Joyce si ritrovarono in un letto a una sola piazza. Nella piccola casa
svizzera lustra di cere e di tendine, il rivoluzionario rossomoro aveva
incontrato una staffetta partigiana di straordinaria bellezza, un po' Alida
Valli, un po' Ingrid Bergman (Beh, certo, se fossi stata una racchiona,
bassotta, grassottella e con i ricci neri, forse sarebbe nata una gran
bella amicizia. E niente più).
E la giovane Salvadori aveva incontrato finalmente la leggenda, una leggenda
colorita e molteplice. Emilio era l'uomo eccezionale, venuto dal terzomondo
d'Italia la Sardegna di cui le aveva parlato a lungo il padre Willy, un
antifascista di raffinata cultura mitteleuropea. Quante altre cose era
Lussu? Il sardo irrobustito tra contadini e cacciatori di Armungia, un
patriziato di cavalieri provetti che passavano dovunque, anche nei tratturi
fra le rocce, di giorno e di notte. L'eroico capitano della Brigata Sassari,
quattro medaglie in guerra. Il socialista irregolare, libertario e autonomista,
che aveva organizzato i fanti-pastori-contadini nel Partito sardo d'Azione.
Il vigoroso parlamentare antifascista che, da un balconcino di piazza Martiri,
a Cagliari, aveva respinto l'assalto d'un migliaio di camicie nere. Il
confinato coraggioso e sarcastico che, insieme a Carlo Rosselli e Fausto
Nitti, era riuscito a fuggire avventurosamente da Lipari, in una notte
di luna immensa e beffarda. Il ritrattista ilare e pensoso che di lì
a poco avrebbe pubblicato due libri straordinari: Marcia su Roma e dintorni
e Un anno sull'altopiano, oggi letto in tante scuole d'Italia. L'esule
giellista che, a Parigi, s'arrabattava con Rosselli e Tarchiani per riportare
nel nostro paese la democrazia e del quale Salvemini scriverà, con
ferocia affettuosa: E' il più delizioso degli uomini, ma il più
squinternato politico che sia mai nato in Italia: non sa quel che vuole,
ma lo vuole immediatamente.
In quella casa svizzera, un pomeriggio di sessant'anni fa, Joyce Salvadori,
piccola ateniese cresciuta tra gli Uffizi e la Mitteleuropa, incontrò
insomma il cavaliere di razza fenicia (come lui amava definirsi), una vita
romanzesca alla quale intrecciare la propria: come due storie raccontate
dalla stessa voce. Esprimevamo due culture diverse, ricorda oggi Joyce.
La mia era una formazione eurocentrica e sottilmente colonialista, che
mi apparve immediatamente anemica vicino all'esperienza vissuta, e non
soltanto letta, di Emilio. Io avevo nutrito la mia infanzia di pittura
rinascimentale e di splendide terzine. Lui era cresciuto a piedi nudi tra
gli sterpi e le rocce di villaggi umiliati da poteri estranei e sprezzanti.
Eppure ci univa la proiezione in un eguale futuro. Pur venendo da mondi
così diversi, convergevamo nell'identificare quel che è civiltà
e quel che non lo è: valori primari ma essenziali. Con questa bussola
elementare, tutta rigore e disinteresse personale, decisero di fare la
guerra mano nella mano. Ma non fu facile per Joyce persuadere quello scapolo
sedimentato a legarsi a lei. Le mie amiche, tanti anni più tardi,
mi avrebbero invidiato un marito così affascinante. Come sei fortunata!,
mi ripetevano. Pareva insomma che l'avessi vinto al Totocalcio. Duro lavoro,
ribattevo. Gli son dovuta correre dietro per dieci anni. Soltanto dopo
sei anni da quel primo, deflagrante, incontro lei sarebbe riuscita a convincerlo
d'essere la compagna ideale per un rivoluzionario militante.
Molto semplice: poteva essere uno scapolo assai più felice con casa,
donna fissa e figlio appena possibile. Un uomo normale in modo eccezionale.
Ed eccoli allora insieme a Parigi, vestiti di stracci eppure fieri con
potenti e prepotenti (Ci potevamo permettere, noi clandestini ed esuli,
di guardare dall'alto in basso i poliziotti), attivi nelle file dell'antifascismo
reparto Giustizia e Libertà e lettori appassionati di Anatole France
e di Tocqueville. Eccoli a Marsiglia, nella fauna pittoresca dell'angiporto,
tra gangster e malavitosi, a organizzare l'espatrio dei compagni clandestini.
E poi a Lisbona, città di intrighi e di spie, emozionati entrambi
davanti ai vassoi colmi di meringhe, vol-au-vants e marzapane. E poi ancora
a Londra, di nuovo a Marsiglia, infine a Roma. E' una vita avventurosa,
quella di Emilio e di Joyce, che si snoda nell'Europa occupata tra storie
rocambolesche, passaggi di frontiera con buchi nei reticolati, perquisizioni,
arresti, inganni orditi ai danni di gendarmi di mezzo continente (Mi sono
salvata la pelle perché alta, bionda e con gli occhi azzurri: sopravvivere
per queste ragioni è terribile!). Una vita di separazioni lunghe
e di incontri casuali. Ma non erano mai vere separazioni. Si stabiliva
tra noi una telepatia che non era magica, ma scaturiva dalla conoscenza
reciproca, dall'omogeneità di reazioni e di abitudini.
Si uniranno legalmente soltanto nel '44, a Roma, appena dopo la Liberazione
della Capitale, davanti a un assessore del Campidoglio. Tirò fuori
dalla borsa la fascia tricolore, impugnò il codice civile e cominciò
a leggere poco convinto una serie di aforismi in base ai quali avrei dovuto
seguire mio marito dovunque andasse. E lui, in cambio di questa persecuzione,
avrebbe dovuto mantenermi a sue spese vita natural durante. Uno strazio,
insomma. Una vita coniugale oppressiva e tradizionale non era fatta per
il cavaliere fenicio e l'ateniese ribelle. Se fossi rimasta a casa ad aspettarlo,
l'avrei annoiato a morte. Tu mi conquisti quando scrivi una poesia o passi
una frontiera, mi ripeteva. E così vivranno in pace come in guerra,
lui impegnato in Parlamento a difendere i ceti più deboli contro
soprusi e angherie, e lei lanciata nelle trincee del Terzo Mondo, al fianco
di Nazim Hikmet e dei guerriglieri curdi. E poi di nuovo insieme ad Armungia,
tra gli anziani di Sardegna che si raccoglievano intorno alla pubidda (moglie)
di Emilieddu.
Mi ha sempre colpito la straordinaria capacità di Emilio di confondersi
con grazia tra la sua gente, lui che era solito distinguersi dappertutto,
a Parigi come a Londra. Da uomo elegante di città, ad Armungia diventava
un perfetto armungese. Ne assumeva i gesti, il portamento fiero, l'inflessione
della voce. Spariva tra essi naturalmente, eppure rimaneva se stesso. E
i ventidue anni che vi separavano: possibile che non abbiano mai pesato?
Figurarsi! Emilio aveva un fisico molto robusto, da pastore sardo sopravvissuto
agli stenti di Armungia. E poi, quel che contava era la sua freschezza
morale e intellettuale. C'è della gente che, a un certo punto, si
ferma e non cammina più insieme al mondo. Emilio ha continuato a
camminare fino all'ultimo giorno. Ma per Joyce chi era Emilio Lussu: il
balente di cui oggi l'Italia avrebbe disperatamente bisogno (sono parole
di Alessandro Galante Garrone), il guerrigliero armato dei vessilli di
giustizia e libertà? Emilio era soltanto un uomo normale: laico
e non dogmatico, tollerante, dotato di buon senso, pronto a cogliere un
barlume d'intelligenza nel più appannato degli uomini. Sì,
era un uomo normale. Ma lo era in modo eccezionale. (La Repubblica - Sabato,
22 dicembre 1990 - pagina 9)
Simonetta Fiori