Discorso al Circolo Rosselli tenuto il 1. 12. 2004 da Stefano Majnoni per la presentazione del libro di Silvio Ficini su Max Majnoni e la sua guerra tra gli alpini.
Buona sera a
tutti. Cos'altro potrei aggiungere a ciò ch'è già stato detto stasera così bene
e copiosamente su mio padre e che non ne sia una mera ripetizione? Forse potrei
cercare di ampliarne la conoscenza estendendola ai lati meno evidenti della sua
vita, a me più chiari per il solo fatto d'essergli cresciuto accanto. Ecco, mi
piacerebbe riflettere ed intrattenervi sui moventi primi o ultimi che l'hanno
spinto e guidato nella vita, mi piacerebbe mettere a fuoco come la sua
individualità si sia maturata e manifestata. Sono forse desideri velleitari di
figlio spuntati solo oggi, in tarda età. Ma poiché sul tema ho pensato (e non
poco) mi sono convinto che due parole in merito ve le potrei dire, forse anche
con vostro interesse, pur sapendo quanto sia diffìcile per un figlio parlare
del padre.
Proprio perché
mi sto occupando della collazione dei diari di Max Majnoni ed ho, per così
dire, sottomano tanti aspetti significativi della sua esistenza, vorrei
intrattenervi su uno di essi che più ne caratterizzarono il modo di vivere.
Alludo alla sua posizione politica.
In primo luogo,
va detto ch'egli si dichiarava un impolitico nato (e lo era) pur avendo
convinzioni politiche determinate e precise.
In secondo luogo, dirò ch'egli era definibile come un moderato.
Mi sono preso la briga di controllare la definizione che di questo sostantivo
da lo Zingarelli: "Uomo che in politica è alieno da posizioni
estreme". E' una definizione che di mio padre coglie benissimo la sua essenza
d'uomo d'ordine, di tradizione, tollerante. Ma è anche.sotto altri punti di
vista, del tutto errata. Solo a pensare che il moderatismo fu il più
ampio bacino di voti fascisti, il gruppo d'opinione più consistente
nell'esprimere consenso alla dittatura. Ora, mio padre non fu fascista, mai. E
non lo fu, non solo per naturale ostilità alla violenza e alla prevaricazione
del potere, per la sua formazione cristiana e liberale, per essere sempre stato
fautore dello stato di diritto, ma anche per un non semplice intreccio di
pulsioni storico-etico-culturali. Cercherò di chiarire queste pulsioni che
dettero al suo moderatismo un colore ben lontano dal grigiore di fondo
che questa parola evoca.
Oltre a
definirsi un impolitico
egli amava qualificarsi un sopravvissuto dell’ancien regime, che ancora non aveva
digerito la Rivoluzione, l'assimilazione della quale gli costava uno sforzo
immenso. Naturalmente esagerava. Di certo faceva fatica ad adeguarsi ai metodi
politici imposti dalla realtà storica, ma li accettava. Nato, cresciuto in
ambiente alto-borghese, meglio ancora, nutrito di tradizione signorile ne
viveva con convinzione i valori ma, essendo anche uomo del suo tempo, vi agiva
e combatteva con strumenti ed armi aggiornati e secondo regole civili condivise.
Insomma era un conservatore, non un reazionario.
Si prenda quanto
ho appena detto anche come esempio del suo atteggiamento di fronte a tante
altre sue conflittualità. Egli le risolveva, più che cercando di comporle (cosa
spesso impossibile da farsi),
scegliendo di operare secondo coscienza e patendo entro di sé la tensione
conseguente alla sua scelta. Cosicché se, da un lato, questi conflitti lo
spiazzavano e lo facevano soffrire, dall'altro lo stimolavano a mobilitare
volontaristicamente tutto sé stesso a
servizio di una moralità nativa e fortemente radicata.
Era stata questa
moralità a guidarlo, adolescente e credente, a cercare indirizzi da dare alla
sua inclinazione religiosa. E a trovarli, in parte, nell'assistenza di un
domenicano di grande qualità umana come il francese H. Clérissac, appartenente
alla cerchia del filosofo cattolico Maritain e conosciuto sedicenne a Milano.
Rimase di grande rilievo per lui il concetto morale, mutuato dal domenicano, di
dovere di stato con cui ci è
fatto obbligo di espletare prioritariamente e con coscienza ciò che pertiene
alla nostra condizione nella società. Una direttiva di vita che gli fu sempre presente e che conferma la natura
prescrittiva della sua moralità.
Ed era stata la
stessa moralità ad indurlo (lui che era di tendenza antimilitarista) ad
arruolarsi volontario per battersi contro gli Imperi Centrali, preso com'era
dagli ideali di liberazione e di solidarietà per i popoli oppressi ed
irredenti. La guerra in prima linea,
combattuta sulle montagne dell'Adamello ad oltre 3000 metri ed al comando d'una
Compagnia di alpini fu una prova, per mio padre, decisiva. In quel clima ogni
superfluità fu spazzata via dalla sua mente e dal suo cuore. Il pericolo, il
suo rapporto con i suoi soldati, gli dettero la misura precisa di un modo
d'essere asciutto, riportato alla sua essenza. Ma anche la consapevolezza di
saper comandare uomini, persino in frangenti d'eccezione. E che l'autorità si
conquista con l'autorevolezza non con i gradi. Da questa esperienza egli uscì
ventiquattrenne, inorridito dalla guerra, provato ma pronto a riprendere un
nuovo cammino nella vita.
Un nuovo cammino
che egli iniziò, appena congedato, a Milano alla Banca Commerciale Italiana
(Comit), dove, passo dopo passo, da
semplice impiegato pervenne ai vertici dell'Istituto. Ebbene, divenuto
Direttore Centrale, si
dimise da quest'incarico nel
1947. Questo apparentemente
inspiegabile abbandono d'una carica così prestigiosa, quando era ancora nel
pieno delle forze (aveva 53 anni) fa un evento cruciale della sua vita che,
decifrato, è in grado di darci informazioni precise sulla sua personalità.
Si scopre così,
leggendo diari e corrispondenza di Majnoni, che egli visse l'esperienza bancaria,
fin dall'inizio, con
disagio. Non esistenziale, si
badi bene, ma culturale. Tant'è vero che il successo, per tanti aspetti
gratificante (l'umana intelligenza di mio padre
fu ampiamente riconosciuta) non bastò a rimuovere il suo disagio di
fondo, come accade di solito con le persone meramente insoddisfatte.
Per mio padre
s'era venuto formando con il tempo la necessità di dar corso finalmente, ad una
sua, la chiamerei proprio così, vocazione. Che con gli anni era cresciuta e
che, negli anni del secondo dopoguerra, era maturata ed aveva preteso di essere
soddisfatta .Questa vocazione era centrata sul lascito culturale e non solo
culturale, di sua madre, una fiorentina della famiglia Baldovinetti. Un lascito
tutto da scoprire, da approfondire, da valorizzare, a cominciare dal suo
patrimonio terriero (non molto consistente ma pieno dei simboli che solo una
terra avita sa generare). Un compito che egli aveva cominciato ad affrontare
fin dai primi anni della sua attività in Comit seguendo a distanza, prima da
Milano e poi da Roma, dove era stato trasferito, con il suo consiglio e la
collaborazione in loco di persone capaci e fidate l'amministrazione
dell'azienda agricola di sua madre, nel pisano; prendendo iniziative per il
riordino e lo studio dell'archivio Baldovinetti, il restauro dei quadri e dei
mobili di famiglia, soprattutto il riammodernamento della villa nel centro
aziendale.
In questo
graduale riappropriarsi dei beni materiali ed immateriali della famiglia
materna (e che io chiamerei il riappropriarsi d'una cultura latente che
sua madre aveva deposto in lui) sta il motivo per cui, a un certo momento egli
capì che non c'era più spazio ne tempo per il suo impegno in banca quand'anche
questo gli assicurasse uno status economico, di prestigio e di potere ben
superiore a quello che gli si sarebbe aperto come agricoltore.
La storia della
sua non facile decisione di lasciare la Comit e dei motivi per cui la prese, è
ricavabile chiaramente, nei termini or ora descritti, dal suo epistolario
con don Giuseppe
De Luca, il
prete intelligentissimo ed erudito che fu suo amico e che conobbe nel
periodo romano. Tale epistolario sarà pubblicato nel 2005 e chi lo leggerà
potrà ricostruire anche la storia della intensa spiritualità cristiana di mio
padre vissuta secondo il canone cattolico a cui egli s'uniformò con un senso
devozionale che non esiterei a definire settecentesco. Come a dire che tout
se tient in chi è coerente, e che il "rimpianto" per l’ancien
regime cui si accennava all'inizio si può associare a forme consone a quel
clima anche nel modo di pregare. Salvo poi a calarsi nel vivo della vita e a
lasciar da parte ogni "rimpianto".
Tanto altro ci
sarebbe da dire di mio padre, ma ho il senso della misura e ve lo risparmio.
Non senza però avervi di lui dato, prima di concludere, un flash che ne
abbozzi qualche altro segno distintivo.
Più volte nella
mia esposizione ho usato la parola moralità per designare l'impegno di mio
padre preso con sé stesso di rispettare quanto gli dettava la coscienza e di
seguire quei codici di comportamento sociali a cui teneva. Poiché la parola moralità può evocarne altre
dalla stessa radice e generare equivoci, vorrei assicurare che in mio padre i
concetti di moralità e di moralismo non s'incrociarono mai. Egli aborriva il moralismo che rendeva asfìttica la vita e che perciò
era da lui lontanissimo. Amava tutte le espressioni della umana vitalità,
perciò era affabile, socievole e di natura conviviale. Nella cerchia dei suoi
amici c'erano le persone le più disparate che sapeva giudicare di primo
acchito. Raramente si sbagliava. Non era un intellettuale e perciò degli
intellettuali diffidava, spesso a torto. Ma era curioso e spesso sacrificava
tale diffidenza al rischio di frequentarne qualcuno tanto da poterne annoverare
diversi tra i suoi amici.
E' tutto. Spero
d'essere riuscito a darvi un ritratto interiore, anche se solo abbozzato, di
Max Majnoni, alpino tra gli alpini, ma anche uomo tra gli uomini, combattente
tra le nevi dell'Adamello, ma anche tra le impervie vicissitudini
dell'esistenza. Per concludere, e per cogliere l'essenza delle sue aspirazioni
spirituali - che furono il tema costante della sua vita - basterà riferire l'epigrafe che egli volle
fosse incisa sulla sua tomba, un versetto tratto da Sant'Agostino ( ignoro da
quale suo scritto provenga), questo:
"O Deus, fac me unum tecum in charitate perpetua ".