Circolo di Cultura Politica
Fratelli Rosselli

Presentazione del libro

POESIE
Firenze 1962-1997

di Pasquale Pietro Lotti
C&T, Firenze, 1997


Interventi di:
Mariella Bettarini
Mariella Zoppi

Venerdì 12 dicembre 1997, ore 17.30
Saletta del Circolo Rosselli
Piazza della Libertà 16, Firenze

Pasquale Pietro Lotti, nato a Carovigno (Br) da una famiglia di cavatori, vive a Firenze dal 1959, e dal 1967 lavora alla Manetti H. Roberts.

Interventi
Mariella Bettarini

A questo punto il mio compito è davvero un po' arduo, più del solito, perché Mariella Zoppi ha toccato dei punti che sono quelli tipici del libro, le cose più belle di Pasquale.

A mia volta, vorrei cercare un percorso un po' diverso. Questo è un libro pieno di belle cose, ricco di spunti, magari non tutti allo stesso livello. Parlo adesso più tecnicamente, non perché questo sia poi così importante, poiché, tutto sommato, conta l'approccio spontaneo, il modo "cordiale" di leggere un libro. Non a caso la parola "cuore"- così spesso abusata - qui invece mi pare sia usata con grande pudore, rispetto e coraggio. Quindi è una lettura "cordiale" quella che Pasquale Lotti invita a fare e che fa lui stesso della realtà. Tra l'altro, i testi del libro coprono un arco di tempo molto lungo, dal 1962 a quest'anno, quindi trentacinque anni di vita, di lavoro, di lotta, di fatica, di riflessione, di amore: il libro rende giustizia di un così lungo arco di tempo, anche se non sappiamo se le prime poesie risalgono agli anni '60 e le ultime agli anni nostri o invece altrimenti. Spero che poi Lotti voglia dircelo.

Sarebbe infatti interessante capire, per esempio, se questi primi testi sono più vecchi e gli ultimi più recenti. Nell'arco dell'intero libro, in trentacinque anni, gli argomenti sono i più varî, ma la qualità della scrittura, la forza della poesia sono costanti.

Volevo insistere su questo: la qualità del libro è spesso molto alta, ossia è veramente poesia. Non vorrei tuttavia apparire come una epigona del crocianesimo: questa è arte, questa non lo è … Credo che non si debba usare il solo metro estetico per leggere un testo di poesia, di prosa, per "leggere" un film, per giudicare l'arte, ma usare un metro etico ed estetico insieme. Guai a noi se avessimo della poesia solo una visione estetizzante! Verrebbe fuori una "linea di poesia" che non è la mia e che sicuramente è lontanissima da questo libro.

Non avrei neanche avuto interesse ad essere qui a parlare del libro se non mi avesse dato emozioni di tipo globale. Libro di poesia, quindi, di poesia come discorso, mentre è anche tentativo e voglia di canto. Per esempio, ho notato qualche testo che mi ricorda l'andamento dei blues o degli spirituals, testi che hanno un andamento ripetitivo, ossessivo ma anche molto dolce, malinconico. Un po' quello che diceva Mariella Zoppi riguardo alla forza, alla luminosità proprie di una certa poesia americana: di spiritualità mentre è di lotta, di lavoro mentre è di rimpianto, di memoria. Una poesia anche, per fortuna, non lirica nel senso deteriore del termine.

Difatti, il libro non è un libro "lirico", ma di forte poesia terragnola: il lavoro, la politica, l'impegno, le poesie dedicate appunto a Gramsci, a Di Vittorio, il muro di Berlino, ecc.. Chiaramente Lotti è qui stasera nella veste di persona che scrive versi, ma credo sia anche giusto e che gli faccia piacere dire che è una persona che fa della poesia non un abbellimento delle proprie giornate, ma tutt'altro: una parte importante, essenziale, fortemente legata ad un impegno civile, umano, sindacale e politico.

Questo senso c'è, ad esempio, in una poesia dove si parla di un sole, che non è soltanto il sole come stella, ma mi pare possa essere inteso come sole ideale, sole come speranza di cambiamento, una speranza rivoluzionaria.

Una poesia quindi di grande forza. Poesia che mi piace anche perché c'è dentro un afflato, una necessità di dire che attraverso la parola (non solo poetica) ci si libera. Questo è uno degli altri "messaggi" di Lotti. Non a caso, la citazione che l’autore ha messo ad epigrafe del libro è composta da due brevi frasi di Daniel Pennac che dicono così: "Ogni lettura è un atto di resistenza, di resistenza a che cosa? A tutte le contingenze, tutte, psicologiche, familiari, sociali, domestiche, ideologiche, gregarie, affettive o narcisistiche. Una lettura ben fatta salva da tutto, compreso da se stessi".

Questo, mentre è un modo per affrontare l'idea di lettura, quindi l'amore, il rispetto, il bisogno della parola, è una cosa che ci mette in guardia. Ho pensato, dopo, che è anche una sorta di volontario avvertimento a chi inizia a leggere il suo libro. Pasquale sembra dirci che una lettura ben fatta veramente ci salva. L’autore pensava certo alle proprie letture come atti di resistenza, però poi ho pensato che anche la lettura di questo libro è un piccolo atto di resistenza al banale, al contingente. Anche perché questa poesia (fatta di quotidianità, occasionalità, di viaggi, di eventi personali, di fatti politici, ecc.) è comunque qualcosa che supera la contingenza, anche per i trentacinque anni che sono l'arco entro il quale questa parola, questa scrittura è rimasta fedele a se stessa.

Ho accettato con molto piacere di essere qui: per me la poesia è una passione ed io presento libri frequentemente. Anche per me la durata della passione e del lavoro è più o meno la stessa di Pasquale (trentacinque anni). A lungo andare, nei decenni e decenni, questa parola, la lettura delle poesie altrui, il lavoro redazionale e di piccola editoria che Gabriella Maleti ed io facciamo, potrebbe rischiare di far diventare tutto quanto magari risaputo, risentito, anche perché non sono poi tanto comuni i libri per i quali sento un interesse, una spinta così viva.

In questo testo ho trovato grande freschezza, verità, spontaneità, non quella del naif, della persona che scrive senza avere consapevolezza di sé e magari cade nei trabocchetti della poesia sciatta, banale. Qua di poesie non riuscite ce ne sono pochissime.

Ora, per tentare di far sentire questo ritmo, questa misura e musica, questa naturalezza nient’affatto banale, vorrei leggere qualcosa, anche se le cose da leggere sarebbero molte, forse troppe, quindi leggerò spigolando qualcosa qua e là. Se poi l'Autore ci vorrà dire e leggere qualcosa, ne saremo molto felici.

Vorrei iniziare da pagina 11, con la poesia dal titolo "Vado peregrinando".

"Vado peregrinando
con due versi sotto sopra.
Mi vesto in fretta e in furia
con due versi sottobraccio
e tiro dalle tasche altri versi,
per fare la bocca a una strada."

È un testo breve; molto bella è la fine: "fare la bocca a una strada" è una metafora di grande forza e originalità.
Leggerò cose un po' più brevi, nelle quali c’è spesso questa forza immediata. La poesia di pagina 15, ad esempio, dal titolo "Cosa":

"Ha un senso questa strada?
Va e non torna
l'amore.
Quanta distanza hai da questo verso innamorato?
Cosa posso dire ancora,
sapendo che il dare di ognuno
è lasciare libertà ai propri battiti?"

È un testo di grande terrestrità, di vero spessore umano, tellurico, ricco di elementi; ci sono le pietre, le fatiche, il sudore, la terra madre, la figura del padre, c'è questo essere stati cavatori, quindi lo scavare anche nei versi, nelle cose con la consapevolezza di agire su una materia di grande durezza, che però necessità anche di consapevolezza nel fare. Spesso, quando le poesie sono così, hanno alle spalle una persona con una coscienza di sé e della vita molto forte, non artefatta.

Poi, per esempio, mi piacciono molto questi due versi, bellissimi, a pagina 19. Sono due versi soli, che dicono così:

"Guardare la tua grazia
e ti sepolsi d'ombra."

C’è il rapporto luce-ombra, sempre presente nel libro. Con questi versi si è riusciti a cogliere un fatto, una persona, un rapporto. Non è facile.
Oppure "Dopo che nacqui", cui anche Mariella Zoppi aveva accennato e che vorrei provare a leggere integralmente.

"Terra piena di sole,
dentro cave e strade pietrose.
Bruciava la pelle di più ai giovanissimi.
I signori non curavano tali cose
e curavano la pelle più del sole.
Nondimeno baciavo la mia terra,
che nuda era
a fare la sua storia.
Dormivo di notte per lavorare di giorno,
non amavo il giorno;
un po' più la notte.
Con un po' di anni addosso,
un giorno me ne andai lontano
e già appartenevo al mondo.
Con treni veloci e a rilento
sono andato per il mondo
e dappertutto ho dormito.
Ho amato donne
ed altre che non mi amavano.
E amori lasciati con treni veloci.
Che fatica non ascoltare l'amore!
Che fatica dirvene!
Ma tutto è in me
e imparo il volo degli uccelli."

È molto bello questo. "Che fatica dirvene!", quindi c’è intanto la fatica di ascoltare l'amore e poi la fatica di "renderlo", ma anche il poterlo dire, il sentire che si scrive non da soli, non solo per sé. Certo da soli, in solitudine e segretamente, però non soltanto per se stessi, ma pensando che qualcuno poi ci ascolterà, ci potrà leggere, capire o no. Quindi questo riferimento agli altri, che è di grande verità.

Così si potrebbe proseguire perché il libro è una miniera di cose che stanno tra questa intimità, questo continuo esporsi, dire "io", questo continuo esserci nelle poesie, proprio come una sorta di rintocco di sé, rintocco vivo, e un continuo alternare fatti intimi, naturali, stagioni, sole, terra, fiori, alberi, con date e fatti storici: "Atene '61", "Berlino", "A Di Vittorio", "'68-'69", "L'Intifada", "Manifestazione del giugno 92", dove si dice di non tacere. Questo non tacere è una parola forte, politica, ma nella poesia c'è anche un richiamo alla parola tout court, alla parola personale, alla forza dell'individuo che si oppone, che quindi non deve tacere, sia in quanto individuo, nei rapporti interpersonali, sia nei rapporti più ampi, sociali, storici, politici.

C'è quindi nel libro, nella personalità di Pasquale, una profonda coesione tra "io" e "noi". Questa è la valenza del libro.

Leggerei ora questo "'68-'69":

"Con la luce in corsa
salivamo sui domani
con l'alto delle ciminiere.
Poi, con cento steccati,
bucavamo l'orizzonte.
Zoppicava il sole
coi raggi che non stavano più in piedi."

Sentite: il binomio '68-'69 Lotti l'ha scritto come una metafora della luce, del sole che aveva i raggi che non stavano più in piedi. Poteva raccontare altre cose, scrivere una poesia d’azione, di fatti storici e politici. Invece ha usato una metafora naturale e quindi da poeta, da poeta che però sa che cosa significa quel biennio. Quindi non è mai una poesia astratta da fatti molto importanti, tragici o felici o speranzosi. Si legga questo testo dedicato a Di Vittorio:

"Studiavi sopra pochi libri,
sulla tua terra inginocchiata;
nel silenzio della candela
cercavi parole nuove,
calde come pietre di Puglia.
Cucita com'era dall'ago analfabeta,
liberavi la tua lingua
e il suono del tuo idioma.
La tua terra alzava in piedi
e languiva anche il pianeta."

Qui è molto preciso ciò che tentavo di dire, ossia il rapporto tra la lingua, la liberazione della lingua e la lettura, la fatica immane di accedere alla cultura, specialmente nel sud, nel sud di Di Vittorio, nella Puglia, nella Calabria, ma non solo: basti pensare alla Barbiana di don Milani. Che cos'è stato per molti bambini, ragazzi, giovani, adulti, che cos’è stato l'accesso alla cultura, il superamento dell'analfabetismo? Veramente una battaglia immensa, una fatica grandissima. Quindi è molto bello, molto vero ed importante che qualcuno continui a parlare di questo, anche se oggi è tutto reso "televisivo", ossia annacquato e non si sa dove finisce la cultura e inizia la cretineria, dove finisce la scuola e riprende il facile divertimento, la vacuità. È veramente un grosso problema.

Così potrei proseguire e leggerei ancora la poesia "Non tacere" a pagina 48.

"Qui venivamo per non tacere.
Manifestazione giugno del '92.
Qui ogni strappo è cucito col sangue.
E come non aver paura,
ieri come oggi?
Sì, qui anche i fiori d'arancio
vibrano in boccio
e poi si aprono.
Qui veniamo per non tacere.
Non più sassi in bocca,
fiori tagliati alla vita.
Qui non abita più
tutto il silenzio di una volta.
Palermo, per aiutarci a resistere,
non disfarti più della bocca,
parla ancora,
anche col profumo dei fiori già tagliati."

Questo - anche se forse non è uno dei testi più ben riusciti – è però un testo importante per il rapporto che c'è tra la bocca cucita, la bocca come sasso, la bocca resa muta dalla mafia e la necessità, invece, di non tacere e quindi quanto la parola sia sempre il centro del discorso, insieme alla terra.

Mi pare che terra e parola siano elementi fortissimi in tutto il libro, in quanto elementi portanti della presa di coscienza, della manifestazione di sé e di noi, in quanto possibilità di esprimere bisogni, desideri, utopie, speranze.

E nella parola sicuramente anche la parola del poeta Lotti, oltre che dell'uomo. "Poeta" inteso in senso non alienato (e alienante). La parola "poeta", infatti, è da usarsi con riguardo e delicatezza. La parola "poeta" è una di quelle parole a doppio taglio, una parola che spesso viene usata con una sorta di aurea vanità. Credo che vada invece usata come una delle parole più concrete, meno alienanti e alienate, qualcosa di strettamente legato a un'esperienza di vita; una parola da usarsi con le molle perché altrimenti si rischia di farne un tutto sacrale, assurdo quindi pericoloso, inusabile, improponibile. Nel senso, invece, in cui la uso e cerco di farla intendere io, la parola "poeta" non è più legata a superiorità, vanità, ma al fare, ad un uso tecnicamente, appassionatamente, intimamente molto profondo, molto forte del linguaggio, quindi a qualcosa che ci coinvolge globalmente in quanto persone. Si diventa, forse, poeti piccoli piccoli solo se si riesce a continuare ad essere persone, non personaggi. Quando si è "personaggi", quando ci si crede poeti, è proprio la volta che non si è raggiunta la poesia.

Leggerò adesso altre due-tre testi e poi vorremmo sentire Pasquale.
Pagina 56: anche questa è una poesia di quattro versi, molto belli:

"Tutte le volte che iniziano le primavere,
lasciano un'ombra che le nascondono;
eppure ogni bella stagione che va via,
qualche spicchio di caldo rimane."

Poi "La sfida", a pagina 61:

"E pensare che su ogni metro di terra,
senza un'idea dentro il cuore,
piantiamo frontiere contro frontiere.
E pensare che ogni muro,
solo il più forte lo salta,
con l'impeto delle merci.
Non spingo idioma contro idioma
e con la trama un po' vecchia di vicende,
da un canto parlo alla storia
delle frontiere dell'odio,
delle etnie contrapposte."

Anche in questo testo c'è il senso dell'idioma, della lingua che non divide, che unisce, che non fa frontiera ma la supera.

Potrei poi leggere l'ultima, "Il suo nome":

"Con le mani di tutti
cancellano il suo nome
e, non chiusi gli occhi suoi,
danno uno sguardo a quelle mani.
Unire non è un verbo semplice,
ma quello che divide e attira nel buio.
Non gli hanno rubato tutto
e vivere una storia rinnovata
è un lungo cammino
che passa per la testa, per il cuore,
per il pane combattuto.
Se questa è la via che comincia tutti i giorni,
non negare l'attrito che ti ostacola,
non negare del tutto la storia di ieri.
E se il giorno scopre giorni più adatti,
alza almeno una mano dalla terra,
dal pianeta che ti appartiene,
da questo lembo di realtà."

In questa poesia, l’autore torna sul tema della terra, su questa realtà che invera tutto il discorso. Per finire, ho trovato ancora il tema del sole: un sole che, a risentirlo, non è soltanto il sole come astro, ma – come ho già detto - il sole metaforico di una speranza, di un cambiamento. Si tratta della poesia: "Dedica pubblica a una pensionata":

"Da un secolo scarso,
stella dopo stella,
si smorza.
è possibile fare una stella illuminata
senza lasciarsi accecare?
Senza lasciarsi ammucchiare?
Non lasciarsi ammucchiare non è come i diversi,
come inventare un nemico,
ognuno può diradare la luce che ci acceca,
l'ombra che ci copre.
Da un secolo scarso sorge,
risorge sul suolo del pianeta
e andiamo di sole in sole,
per un ascolto reciproco."

Grazie. Ho finito.

[P:S: Si tenga conto che si tratta della trascrizione di un testo orale, quindi non sistematico, né formalmente troppo accurato (M.Bettarini)]