Problemi e priorità
per la ricerca in Europa
Umberto Colombo
Ho conosciuto Luigi Amaducci nei primi anni '70, quando entrambi facevamo
parte di Comitati di Consulenza del C.N.R., Luigi in quello per la Medicina,
io in quello per la Chimica. Il nostro comune spirito di servizio ci ha
fatto subito diventare amici. Poi abbiamo avuto, negli anni, numerose occasioni
di incontrarci, in convegni sulla politica della ricerca, fra i quali alcuni
organizzati dal Circolo Fratelli Rosselli. Quando, nel 1993, divenni Ministro
per la Ricerca e l'Università, fui lieto di confermare Luigi quale
Rappresentante italiano nel Programma Europeo BIOMED, che stava per iniziare
la seconda fase della sua attività. Ebbi allora conferma della straordinaria
stima di cui egli godeva presso la Comunità Europea. Il suo sforzo
continuo era di riuscire a portare il sistema italiano della ricerca biomedica
a livello di eccellenza nel contesto europeo, e qualche risultato concreto,
specie nella neurologia e nello studio dell'invecchiamento.
Sappiamo tutti che l'Europa investe meno dei suoi principali competitori,
Stati Uniti e Giappone, in ricerca e sviluppo: l'1,85% del PIL, contro
percentuali attorno al 2,8% negli Stati Uniti e nel Giappone. Ma l'Unione
Europea è tutt'altro che omogenea: al suo interno, la Finlandia
investe in R&S il 3,4% del PIL, Svezia il 3%, la Germania il 2,6%,
la Francia il 2,4%, l'Italia l'1,1%, la Spagna lo 0,9%. Anche il numero
dei ricercatori europei è relativamente basso: 774.000, ossia 5
per ogni 1.000 lavoratori, contro 963.000 degli Stati Uniti (7,4 per 1.000)
e 511.000 del Giappone, 8,0 per 1000.
C'è generale concordanza sul fatto che l'Europa accoppia a una buona,
in alcuni settori eccellente, posizione nella ricerca scientifica fondamentale,
una capacità inferiore, rispetto agli Stati Uniti e al Giappone,
di tradurre i risultati della propria ricerca in innovazioni industriali
e in una solida posizione competitiva nei settori ad alta tecnologia. In
questo sta il paradosso della ricerca europea.
È difficile valutare la posizione competitiva dell'Europa. Un certo
numero di imprese europee competono con successo in settori come la chimica
(D, CH, UK, NL) la farmaceutica e i prodotti biomedicali, la meccanica
e la robotica, l'auto, i trasporti (inclusi i treni ad alta velocità),
l'aeronautica, l'energia (inclusa la generazione di elettricità),
la metallurgia, i prodotti durevoli di consumo, e molti settori tradizionali
ove riesce a innestare con successo le tecnologie di punta. Nei settori
high tech è comune il caso in cui le imprese europee più
competitive si trovano in piccoli paesi, abituati da sempre ad affrontare
i mercati mondiali. (ad es.: Ericsson e Nokia in telecomunicazioni e telefonia
mobile).
Gli indici di specializzazione internazionali dell'Europa si sono andati
deteriorando nelle high tech dal 1970 al 1992. Nell'interscambio nei prodotti
a tecnologia avanzata con Stati Uniti e Giappone, l'Europa si presenta
con un saldo negativo medio annuo superiore ai 20 miliardi di dollari.
Alcuni problemi si pongono con urgenza di fronte alla ricerca Europea:
l'elevato tasso di disoccupazione, dovuto alla rigidità del mercato
del lavoro, ma anche correlato alla insufficiente competitività
europea nelle tecnologie avanzate; la perdurante arretratezza nel prepararsi
all'avvento della Società dell'Informazione; il sostegno che la
ricerca deve dare all'attuazione in senso non protezionistico delle politiche
comunitarie, da quelle per l'agricoltura e per la pesca a quelle per i
trasporti, per l'energia, per la salute, per l'ambiente e lo sviluppo sostenibile;
infine, il contributo che la ricerca deve dare all'ampliamento dell'Unione
coll'accesso, a medio e lungo termine, di nuovi paesi dal Centro - Est
Europa e dal Mediterraneo.
La precarietà di questa situazione, superabile solo con solidali
scelte strategiche di sviluppo, tende ad aggravarsi con l'andamento riflessivo
di settori avanzati come lo spazio, dove in passato si era riusciti a realizzare
significative politiche comuni, e con il sostanziale e difficilmente reversibile
stallo di un settore, quello elettronucleare, dove l'Europa (soprattutto
con la Francia, ma anche con la Germania e la Svezia) era riuscita a conquistare
una posizione di forza a livello mondiale. Le recenti decisioni di Svezia
e Germania in materia di phasing out del nucleare, e il fatto che il prezzo
del petrolio sia sceso a livelli di poco superiori ai 10 dollari al barile,
parlano chiaro in materia.
Il superamento di questo stato di cose deve puntare innanzitutto sulla
piena attuazione del mercato unico europeo e sulla realizzazione delle
grandi infrastrutture moderne. Le grandi reti (quelle delle telecomunicazioni,
del gas e dell'energia elettrica, dei trasporti) vanno concepite e progettate
fin dall'inizio come uno strumento di sviluppo e di integrazione fra l'intero
continente europeo e i paesi delle sponde Sud e Est del Mediterraneo.
La grande risorsa di cui l'Europa già dispone in misura elevata,
anche se non uniformemente distribuita, è quella Culturale - professionale,
che va ulteriormente potenziata e accompagnata da appropriati programmi
di ricerca, al fine di consentire nel breve - medio periodo una utilizzazione
delle conoscenze e delle tecnologie disponibili per innovazioni che vadano
incontro alla domanda espressa dal "mercato" e a quella latente:
per citare un settore poco consueto, si pensi ad esempio alle enormi possibilità
di integrazione fra ricerca storico - artistica, ricerca scientifico -
tecnologica, tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali, dove
le dimensioni del mercato interno all'Unione Europea e le competenze accumulate
nei diversi paesi consentirebbero di penetrare in misura dominante nel
resto del mondo, a partire dall'Est Europeo e dai paesi del Nord Africa
e del Medio Oriente.
Sarebbe altresì un errore se l'Europa, giustamente impegnata in
una revisione delle proprie politiche di welfare (caratterizzate da notevole
inefficienza), assieme all'acqua sporca del bagno buttasse via anche il
bambino. Così facendo, oltre a rinunciare, non tanto a una strumentazione
operativa, quanto a un sistema di valori che ha caratterizzato in positivo
la qualità di vita nel nostro continente, ci si priverebbe di una
delle fonti più promettenti di sviluppo tecnologico e occupazionale.
Ad esempio, per quanto concerne la salute, l'allungamento progressivo della
vita (un argomento caro a Luigi Amaducci), accompagnato dalla riduzione
del tasso di natalità, la progressiva trasformazione multi - etnica
delle popolazioni europee, la diffusione di vecchie e nuove patologie,
portano a una evoluzione e una diversificazione crescente della domanda,
con potenziali ricadute sia economico - produttive, sia in termini di servizi.
Un ricorso meglio mirato alla ricerca, e un clima di sana concorrenza,
potrebbero condurre a risultati validi per il futuro del welfare europeo.
Uno dei punti di forza dell'Unione Europea, che allo stesso tempo è
suscettibile di crescente vulnerabilità, è costituito dal
tessuto diffuso di piccole e medie imprese (PMI) spesso altamente specializzate,
flessibili e dinamiche. Oltre il 99% dei 16 milioni di imprese europee
impiegano meno di 250 addetti, mentre fra le grandi imprese (definite come
quelle che impiegano più di 250 dipendenti), quelle con oltre 500
dipendenti sono numericamente solo lo 0,1%. Le PMI contribuiscono per circa
due terzi all'impiego totale e in eguale misura alla cifra d'affari complessiva
delle imprese nei 15 paesi dell'Unione. Se si considera che le medie imprese
(quelle con 50-249 addetti) contribuiscono solo per il 15% all'impiego
totale e per il 19% alla cifra d'affari, l'importanza delle piccole imprese
vere e proprie viene in piena evidenza.
Anche se in Europa scarseggiano le PMI a base scientifica, che invece abbondano
negli Stati Uniti (dove spesso nascono per iniziativa di ricercatori universitari
desiderosi di sfruttare le loro scoperte), si deve riconoscere alle PMI
europee un insieme di qualità che le rendono in media superiori
rispetto alle loro simili in America e in Giappone (significativa tra queste
qualità la cultura diffusa, che è l'eredità di una
antica tradizione di artigianato e di mestieri altamente specializzati,
abbinata spesso al gusto per il design e alla creatività). Ma la
piccola dimensione costituisce un'oggettiva penalizzazione quando si tratta
di affrontare le complesse sfide delle nuove tecnologie e della competizione
globale. Occorre dunque mettere in atto politiche che favoriscano la crescita
dimensionale delle PMI europee e il loro collegamento a rete. Michael Porter
ha suggerito che queste reti di imprese, integrate con supporting and related
industries, siano un'importante fonte di vantaggio competitivo. Inoltre
occorre intraprendere azioni volte a far penetrare le tecnologie avanzate
anche nelle PMI che operano in settori tradizionali. Il rischio delle PMI
è difatti quello di rimanere "prigioniere" della cultura
del settore in cui operano, senza riuscire ad apprezzare ciò che
le nuove tecnologie, soprattutto quelle afferenti al filone informatica
- automazione - comunicazioni, sono in grado di apportare in termini di
produttività, qualità, flessibilità.
Oggi in Europa si contano circa 19 milioni di disoccupati: è come
se essi costituissero la popolazione del sesto paese dell'Unione. Il tasso
medio di disoccupazione nell'Unione Europea è dell'11%, e si eleva
al 20% per i giovani di età inferiore ai 25 anni. Senza una massiccia
dose di innovazione tecnologica la situazione è destinata a deteriorare
ulteriormente. Le piccole imprese europee debbono essere aiutate a crescere
e a fare ricerca. C'è molto che i governi possono fare. Il venture
capital europeo è poco moderno, conservatore, preferisce i non-technology
investments ai seeds & start-ups. In questi ultimi anni si sta assistendo
a un miglioramento, specie nel Regno Unito.
Da questa breve analisi si deve concludere che alcuni elementi, come la
necessità di riforma del welfare state e l'attenzione che l'Europa
deve dedicare ai paesi circostanti gravidi di problemi, se da un lato possono
essere visti come dei condizionamenti, dall'altro lato vanno considerati
come opportunità strategiche su cui l'Europa deve far leva.
Analogamente, il livello avanzato delle politiche europee a favore dell'ambiente
ha prodotto lo sviluppo di conoscenze e di tecnologie che già oggi
trovano significativi sbocchi sul mercato mondiale per l'accresciuta sensibilità
ai problemi ecologici in diversi paesi in via di sviluppo. In proposito,
eclatante è il caso della Cina, che è oggi uno dei paesi
più impegnati nel ricercare la compatibilità fra crescita
economica - con i bisogni di energia e altre risorse che essa comporta
- e la protezione dell'ambiente. È estremamente istruttiva a tale
proposito l'Agenda 21 predisposta dal Governo della Repubblica Popolare
Cinese, che è articolata in precisi, lungimiranti programmi di investimento
e di ricerca.
Il divario fra le potenzialità esistenti e la loro più efficace
attuazione può essere colmato se, invece di privilegiare il proprio
sforzo nazionale, in grado di apportare vantaggi nel breve periodo, i paesi
europei sapranno dar vita a politiche unitarie di respiro continentale,
le uniche in grado di risultare vincenti nel lungo termine.
La ricerca coordinata a livello europeo rappresenta oggi nel suo complesso
il 12-13% dello sforzo pubblico di R&S dei 15 paesi membri. Ha tuttavia
un ruolo catalitico, nel senso di orientare e rendere più coerenti
fra loro i programmi nazionali. Finora la fisica delle alte energie (CERN),
lo spazio (ESA), la biologia molecolare (EMBL), l'astrofisica (ESO), la
ricerca fondamentale (ESF). Ma molto importante è stato, dal 1982
in poi, il Programma - Quadro di ricerca, sviluppo e dimostrazione, che
da solo rappresenta il 4% di tutto lo sforzo pubblico di R&S dei paesi
membri. Si deve aggiungere che, a partire dal 1985, in risposta alla enorme
concentrazione di sforzi messi in piedi dagli Stati Uniti nella ricerca
industriale col programma SDI (Strategic Defence Initiative), per iniziativa
del Presidente Mitterrand, è in atto in Europa il programma EUREKA
di collaborazione nella ricerca industriale in progetti definiti e portati
avanti dalle imprese, col sostegno dei governi e, per alcuni progetti,
con quello della Comunità. Grazie a EUREKA sono sorte numerose alleanze
e concentrazioni di imprese pubbliche nei settori high-tech.
I Programmi - Quadro della Comunità Europea si sono avvalsi finora
di una metodologia basata su una forte componente bottom-up, in base alla
quale le proposte di ricerca riflettevano in gran parte le idee che emergevano
dal mondo della ricerca (supply-side) piuttosto che da quello dei potenziali
utilizzatori dei risultati (demand-side). Si comprende facilmente che la
concezione dei Programmi - Quadro sia stata fortemente frammentaria. I
risultati sono stati buoni, talvolta anche eccellenti, sul piano scientifico,
ma complessivamente deludenti sul piano delle applicazioni e dell'impatto
sull'economia.
Si sta ora avviando il V Programma - Quadro (1998-2002), che cerca di correggere
i difetti riscontrati. Esso si presenta quindi strategicamente più
compatto e concentrato, ed è diviso in 6 programmi specifici, di
cui tre a carattere tematico, tre di tipo orizzontale. Resta da confermare
la volontà europea di assicurare, al di là dell'apparenza,
una strategia più selettiva e mirata, dato che non è da escludere
che, anche con le migliori intenzioni, il Programma così definito
si modifichi, nel processo di acquisizione del consenso politico, in qualcosa
di diversamente, ma non meno frammentato dei Programmi - Quadro del passato.
In queste settimane si sta purtroppo assistendo a un braccio di forza fra
Consiglio dei Ministri Europei e Parlamento Europeo per quanto attiene
all'ammontare del finanziamento complessivo del Programma Quadro: mentre
il Parlamento Europeo sarebbe favorevole a stanziare complessivamente 16
miliardi di ECU, il Consiglio dei Ministri, spinto dai paesi più
forti dell'Unione (Germania, Francia, Regno Unito), è riluttante
a stanziare più di 14 miliardi di ECU.
Di particolare importanza per l'Europa è l'identificazione delle
"tecnologie critiche" che hanno una funzione trainante per il
futuro dell'economia europea. Occorre in proposito essere coscienti che
le tecnologie critiche per l'Europa possono essere in parte diverse da
quelle considerate critiche da Stati Uniti o Giappone. L'Europa deve correggere
ove necessario le sue debolezze, ma deve anche puntare sul rafforzamento
dei suoi punti di forza, che presentano anche qualche vulnerabilità.
L'Europa ha infatti una straordinaria dotazione culturale, una storia di
diversità di etnie, di culture specifiche, di lingue, costumi, tradizioni
che, se rendono ardua l'integrazione dei suoi diversi componenti nell'Unione,
rendono però estremamente ricco il tessuto sociale europeo e sono
particolarmente utili in un mondo in cui sempre più, per creare
il nuovo, c'è bisogno di una interdisciplinarità che abbracci
anche le scienze sociali e umanistiche e tocchi le conoscenze nel loro
complesso, non solo quelle scientifiche e tecnologiche in senso stretto.
La scelta delle tecnologie critiche per l'Europa deve tenere conto innanzitutto
dei settori ove l'Europa è già competitiva sul mercato mondiale,
(ad esempio, chimica, farmaceutica, meccatronica, spazio, alcuni comparti
dell'energia, agroalimentare), nonché di quelli che caratterizzano
l'elevato benessere sociale del continente (salute, abitazioni e strutture
urbane, ambiente e territorio), e quelli che si basano su profonde radici
culturali e estetiche (moda e stile, beni culturali), di quelli che sono
gli artefici della rivoluzione tecnologica, in particolare microelettronica
- informatica, telecomunicazioni, nuovi materiali, biotecnologie. Nelle
biotecnologie l'Europa è arretrata rispetto agli USA pur avendo
aree di autentica eccellenza nelle scienze biologiche (biologia e genetica
molecolare). Vista dall'America, l'Europa della biotecnologia sembra ancora
una specie di Wild East, vale a dire un panorama ricco di risorse scientifiche
finora scarsamente utilizzate.
Si tratta, naturalmente, di indicazioni di massima e non esaustive; inoltre,
ogni settore prescelto va analizzato con attenzione per individuare comparti
e indirizzi anche molto specifici sui quali concentrare idee e mezzi.
Una volta approfondite le ragioni della debolezza europea nella competizione
globale, occorre indicare un percorso praticabile (meccanismi decisionali,
strumenti attuativi) per recuperare lo svantaggio attuale e garantire per
il futuro una risposta tempestiva alle sfide competitive che proverranno
dal Nord America e dal Giappone, ma anche e sempre più dai paesi
emergenti che puntano tutto sulla formazione qualificata del fattore umano
e sulla ricerca.
Concludendo, si può dire che l'Europa della ricerca e dell'innovazione
si trova alla soglia del nuovo millennio con una serie di problemi irrisolti.
Essa deve difendere la sua posizione in un contesto globale dell'economia
che cambia velocemente, con nuovi mercati e nuovi concorrenti che si aggiungono
ogni anno. E deve anzi recuperare terreno nella concorrenza globale, specialmente
nei settori ad alta tecnologia in cui negli ultimi 15 anni ha perso continuamente
quota.
È fuori dubbio che il fattore umano, che è in grado di esprimere
un forte potenziale scientifico - tecnologico, rappresenta la risorsa più
preziosa dell'Europa sotto il profilo strategico, e che la comunità
scientifica europea è in grado di produrre eccellenti risultati.
Essi confermano altresì che la ricerca non è riuscita finora
a dare un contributo adeguato alla competitività dell'industria
europea, e neppure al conseguimento di obiettivi di benessere e di qualità
della vita e dell'ambiente.
Dedicare maggiori risorse alla ricerca e alla formazione scientifica e
tecnologica del capitale umano europeo è certamente necessario,
ma è ancor più necessario addivenire a un cambiamento di
mentalità, che conduca a definire e attuare, con un nuovo spirito
imprenditoriale e una visione di largo respiro, una strategia di sviluppo
economico e sociale condivisa dai paesi membri dell'Unione.
Esiste in Europa (e particolarmente in Italia) una notevole separatezza
fra università e industria. Gli interessi scientifici in ambito
accademico sono spesso avulsi da ciò che serve all'economia reale.
In alcuni paesi persiste la mentalità che collaborare con l'industria
rappresenti per l'Università uno "sporcarsi le mani".
Anche nell'industria europea c'è bisogno di un cambiamento di mentalità
su tutta la linea. Occorre superare completamente l'approccio prevalente
del passato, quando i singoli paesi europei operavano su mercati protetti,
senza una accesa competizione. C'è bisogno di un nuovo spirito imprenditoriale,
un diverso modo di intendere lo sviluppo economico e sociale, guardando
a quello che fanno gli altri, ma evitando di commettere l'errore di "appiattirsi"
sul modello americano.
Ecco, mi sembra che avere evidenziato l'importanza per l'Europa del fattore
umano, che significa attribuire fondamentale importanza alla formazione
superiore nella scienza e nella tecnologia, e nel sostenere la necessità
di proficui, sistematici contatti fra industria e università, sia
stato da parte mia il miglior modo per ricordare Luigi Amaducci, e per
onorare la memoria di uno scienziato di eccezionale valore, generoso, modesto,
profondamente apprezzato anche al di fuori dei confini del nostro paese.
Umberto Colombo è Consigliere Comitato Nazionale Economia e Lavoro
(CNEL) .