Ricordo di Luigi Amaducci
Luca Massacesi
Luigi Amaducci ha rappresentato
una delle figure più complesse e stimolanti della ricerca biomedica
italiana sia per livello delle attività svolte sia per molteplicità
di queste: ricerca scientifica, attività clinica, i molti interessi
culturali, politica della ricerca e politica accademica. Prima di ricordare
queste attività in maggiore dettaglio è necessario tuttavia
soffermarsi sulla personalità dell'uomo.
L'UOMO
Ho conosciuto Amaducci nel 1979, durante
l'Università in qualità di rappresentante degli studenti
in consiglio di Facoltà, ancor prima di seguire il suo corso di
Neurologia. Era per noi, allora più giovani, una figura enigmatica,
ma anche per questo forse affascinante. Come altri fui attratto dalle sue
qualità di persona colta, moderna, ricca di contatti internazionali,
ma nello stesso tempo eccezionalmente semplice ed educata. Per questo,
prima ancora che dalle sue qualità di scienziato che allora non
avevo gli strumenti culturali per valutare, richiesi in quel periodo di
preparare con lui la tesi di Laurea da cui poi derivò la collaborazione
protrattasi senza interruzione fino alla sua scomparsa. Infatti, nei successivi
18 anni di sodalizio ho avuto il privilegio di sviluppare con Amaducci
un rapporto profondo, un rapporto discepolo - maestro come era frequente
in passato, ma ormai eccezionale. Ovviamente non sono stato il solo, Amaducci
ha avuto numerosi altri allievi, e qui porto una testimonianza condivisa
almeno da alcuni di loro.
Come altri studenti usciti negli anni settanta da un Liceo di impostazione
ancora chiaramente idealista, mi stavo formando in una Università
anch'essa nel suo insieme basata sugli stessi fondamenti ideologici, in
cui l'apprendimento passivo, teorico e mnemonico era ancora troppo prevalente
sull'apprendimento attraverso l'esperienza. In questo contesto l'incontro
con Amaducci fu traumatico, rappresentando per me una profonda frattura
con le precedenti esperienze culturali. Infatti il suo pensiero, coerentemente
con la sua biografia, era intriso di un empirismo di origine chiaramente
anglosassone e di una morale più vicina a quella protestante che
a quella cattolica, ma inequivocabilmente laica. Le sue azioni e le sue
scelte erano quindi basate su di un pragmatismo e su un rigore conseguenza
del principio di responsabilità individuale in cui credeva, che
a me apparivano tanto insoliti quanto sani e fertili: aria fresca nei corridoi
un po' ammuffiti dell'accademia di allora. In quei tempi, il suo pensiero,
le sue azioni e quindi anche il suo linguaggio, erano così diversi
da quello della nostra educazione che spesso avevamo difficoltà
anche a capirsi. La sua visione del mondo era chiaramente radicata nell'empirismo
inglese, e coerentemente con questa visione Amaducci credeva tenacemente
e ci insegnava attraverso il suo esempio, in una idea semplice ma ancora
rivoluzionaria: che la Conoscenza non poteva derivare solo dalla parola
scritta, dal testo, attraverso la quale ci perviene cristallizzata e raramente
viva, o da speculazioni astratte, ma anche e soprattutto dal dato sperimentale,
cioè dai sensi che ci trasmettono l'esperienza diretta delle cose.
Per questo Amaducci credeva che la migliore didattica e la migliore attività
clinica, non potessero derivare che da un'intensa attività sperimentale
sul campo, e per i ricercatori medici un'ottimale esperienza sul campo
doveva essere maturata sia in ospedale che in laboratorio. Infatti egli
riteneva che la didattica senza ricerca alle spalle non poteva produrre
che lezioni di liceo e che l'aggiornamento clinico senza ricerca diventava
prevalentemente una specie di scuola professionale. Era certamente una
visione elitaria della cultura, ma nessuno era escluso da questa elite
se aveva passione e volontà. Così infatti accadde realmente:
infatti Amaducci evitò sempre accuratamente di selezionare personale
con criteri diversi dal merito.
Amaducci era particolare anche nei modi. Il suo carattere mite, mai arrogante
e rispettoso del prossimo aveva costituito un terreno ideale anche per
assorbire alcune caratteristiche del comportamento anglosassone nei rapporti
interpersonali, quali per esempio il controllo delle proprie emozioni,
la pazienza e la diplomazia nel perseguire i propri obiettivi, la tendenza
ad evitare interazioni troppo dirette con il prossimo. Non a caso infatti
recentemente, in campo letterario aveva molto apprezzato un autore giapponese
che nel racconto intitolato "Quel che resta del giorno" magistralmente
aveva colto l'essenza del carattere di un professore universitario di Oxford
elevandolo a prototipo dello stile di vita tipico dell'Inghilterra nel
periodo fra le due guerre.
IL RICERCATORE
La Sclerosi Multipla è stato l'interesse
principale dei primi anni della sua carriera. Infatti subito dopo la laurea
passò alcuni anni a Cambridge (USA) presso l'Università di
Harvard, lavorando nel laboratorio di Jordi Folch-Pi, uno dei fondatori
della Neurochimica moderna, che in quegli anni si interessava della struttura
biochimica della mielina. Tornato in Italia, nei primi anni sessanta, fu
uno dei pionieri nello studio della Sclerosi Multipla e dei suoi modelli
sperimentali. In età più matura si dedicò anche allo
studio delle demenze e dell'invecchiamento cerebrale ed in particolare
alla malattia di Alzheimer. Questi obiettivi furono perseguiti con le metodologie
che la ricerca di base rendeva via via più adeguate: prima la biochimica
poi la biologia cellulare e molecolare, la genetica, l'epidemiologia, l'imaging,
i trial clinico - farmacologici. Soprattutto innovativo nei suoi primi
anni di attività fu il metodo di lavoro, basato su una dedizione
piena alla ricerca senza distrazioni professionali e su una grande imprenditorialità
caratterizzata dall'attenzione al reperimento di fondi e quindi alla pianificazione
ed agli aspetti organizzativi dei progetti di ricerca. Questo avveniva
fin da anni in cui l' attenzione, oggi normale, anche agli aspetti organizzativo
- finanziari era sconosciuta alla maggioranza dei ricercatori, specialmente
in campo clinico. I settori di ricerca che negli ultimi anni maggiormente
interessavano Amaducci erano ancora quello della malattia di Alzheimer
e quello della Sclerosi Multipla, dei quali continuava ad occuparsi con
i suoi collaboratori. Su questi argomenti in particolare Amaducci durante
la sua vita ha pubblicato decine di lavori sulle migliori riviste internazionali,
alcuni dei quali hanno avuto un impatto fondamentale sull'argomento. Per
la sua particolare competenza in questi campi della Neurologia gli venivano
continuamente richieste valutazioni dalle più importanti riviste
neurologiche e mediche sui lavori pervenuti. Di alcune di queste faceva
anche parte del Comitato di Redazione.
Ultimamente aveva inoltre dedicato moltissime energie per dotare l'Università
di Firenze di uno strumento indispensabile a permettere un ormai indifferibile
salto di qualità alla ricerca in diverse discipline: un Centro per
studi di Risonanza Magnetica. Tale Centro, oggi a lui intitolato, ha recentemente
cominciato a funzionare a pieno regime con le innovative modalità
di organizzazione che Amaducci aveva in mente: un Centro Interdipartimentale
finalizzato alla ricerca clinica in cui l'attività diagnostica è
solo uno strumento per l'autofinanziamento.
Negli ultimi anni Amaducci aveva svolto anche il ruolo di ideatore e coordinatore
di numerosi progetti di ricerca per diverse organizzazioni sia nazionali
che internazionali. È utile ricordare che era Prorettore dell'Università
degli Studi di Firenze; Direttore del Progetto Finalizzato Invecchiamento
del Consiglio Nazionale delle Ricerche; Presidente della Società
Italiana di Neurologia; Vice Presidente della Federazione Europea delle
Società di Neurologia; delegato italiano al Biomedical and Health
Research Programme dell'Unione Europea; delegato italiano all'European
Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis (ECTRIMS); Presidente
del Gruppo di Ricerca sulle Demenze della Federazione Mondiale di Neurologia.
Nel ruolo di maestro fu nei primi anni una guida soprattutto attenta affinché
i nostri sforzi fossero focalizzati ad obiettivi finali precisi e non si
disperdessero nei mille interessi che emergono dalle menti di giovani entusiasti.
Ma era un controllo a distanza che lasciava una grandissima libertà
sugli obiettivi intermedi, sui metodi per perseguirli e sui tempi, in ossequio
ad una cultura liberale che credeva profondamente nella libera espressione
dello spirito umano e anche in ossequio alla convinzione che questo fosse
il modo migliore per far lavorare in modo produttivo persone che lui stesso
aveva selezionato per motivazione e per capacità. Ultimamente si
occupava prevalentemente di mettere i suoi collaboratori nelle condizioni
organizzative e finanziarie ottimali per lavorare serenamente, ma ancora
partecipava con interesse, ma soprattutto con cognizione di causa, ai seminari
ed alle riunioni di laboratorio e alla revisione dei dati sperimentali.
IL MEDICO
In campo medico, vedeva l'ospedale universitario
come la sede naturale del trasferimento dell'innovazione all'attività
assistenziale e per questo aveva organizzato il suo reparto anche come
strumento funzionale all'attività di ricerca clinica, in stretto
coordinamento con l'attività di ricerca preclinica che veniva svolta
nei laboratori del Dipartimento ed in collaborazione con altre istituzioni
anche estere. All'interno di questo modello organizzativo aveva investito
molto nello sviluppo di modelli sperimentali in vitro ed animali, funzionali
allo sviluppo preclinico di terapie innovative e, negli ultimi tempi, aveva
investito molto sull'acquisizione di tecnologie (soprattutto di imaging)
per lo sviluppo clinico delle stesse terapie. Nel contesto di questa strategia
ovviamente vedeva positivamente collaborazioni con l'industria farmaceutica,
ma aveva anche una particolare attenzione al dovere morale che secondo
lui ha l'istituzione pubblica di perseguire lo sviluppo di terapie orfane,
cioè non sponsorizzate dall'industria.
Al di là degli aspetti scientifici Amaducci fu anche un eccellente
neurologo, dotato di notevoli capacità diagnostiche ma anche particolarmente
apprezzato per il suo rapporto con il malato. Negli ultimi anni, a causa
dei suoi impegni sempre più frequenti, aveva i minuti contati per
chiunque, ma quando si trovava di fronte al paziente si dedicava solo a
lui e mai sbrigativamente. Eseguiva da solo l'anamnesi e la visita e ascoltava
il paziente per tutto il tempo necessario, consapevole che la sua opera
consisteva anche nel saper ascoltare. Quando ho assistito per motivi didattici
alle sue visite ambulatoriali, al di là della nota competenza medico
- scientifica, sono sempre rimasto colpito da una caratteristica del suo
comportamento: il senso di ottimismo che cercava di trasmettere al paziente.
Amaducci, se possibile, evidenziava con il paziente il lato positivo di
ogni particolare e valorizzava le probabilità di guarigione e di
miglioramento evitando sempre di comunicare "sentenze" definitive,
poiché era consapevole che spesso la biologia ci smentisce. Infatti
era convinto che nel dare valutazioni in su argomenti su cui mancavano
certezze sperimentali, atteggiamenti pessimistici anche soltanto in termini
di probabilità, potevano demotivare il paziente minando quella "voglia
di migliorare" che tanto contribuisce ad una positiva percezione del
decorso della malattia, specialmente quella cronica. Per questi motivi
le sue visite erano di solito molto lunghe ed suoi pazienti lo adoravano.
Occorre sottolineare infine il grande amore che Amaducci aveva per l'Istituzione
pubblica che, almeno in campo assistenziale, lo ha ricambiato invece con
strutture e infrastrutture inadeguate alla medicina come lui la intendeva,
sia per funzionalità sia per qualità del setting. Amaducci
soffriva particolarmente questa inadeguatezza delle strutture, in quanto
era sua convinzione che l'obiettivo principale dell'attività assistenziale
come dell'attività di ricerca fosse il perseguimento dell'interesse
collettivo e che quindi la sede naturale dell'attività clinica del
medico fosse l'Istituzione pubblica.
L'UOMO POLITICO
L'interesse collaterale alla vita professionale
che coinvolse maggiormente Amaducci fu l'impegno politico. Tuttavia nella
sua visione del mondo laica e lontana dal sentire appartenenze diverse
da quella dello Stato tale impegno si concretizzo specialmente in un intensa
attività negli aspetti organizzativi della ricerca. Questo avvenne
sia a livello internazionale, in particolare presso l'Unione Europea, sia
a livello nazionale, in particolare negli ultimi anni presso la Commissione
sulle Facoltà di Medicina insediata dal Ministro Berlinguer. Pur
non essendo un uomo di partito aveva idee politiche precise. Per descrivere
sinteticamente questo aspetto della vita di Amaducci, non ho saputo trovare
parole migliori di quelle del suo caro amico e collega, Giancarlo Pepeu,
il quale ha scritto:" Amaducci fu attento agli sviluppi della politica
nazionale, non rifiutando di impegnarsi in prima persona per una società
libera, efficiente, fondata sulla cultura, sull'onestà e sulla giustizia
sociale". Conseguenza delle sue idee a livello di politica della ricerca,
fu l'impegno nella riforma e nella modernizzazione delle nostre Università
che voleva "efficienti, adeguatamente finanziate, ma soprattutto accuratamente
valutate nei loro risultati". Infatti a tutti i livelli della vita
accademica e di altre istituzioni di ricerca nelle quali fu chiamato a
dare il suo contributo, cercò sempre di far accettare i metodi di
lavoro osservati nelle migliori istituzioni straniere. A Firenze per esempio,
in qualità di Delegato del Rettore alla Ricerca e poi di Pro - rettore
è riuscito a promuovere ed a pubblicare il primo censimento dell'attività
di ricerca dei Dipartimenti, inizialmente basato solo sulla capacità
di attrazione di fondi di Ricerca, ma che certamente costituirà
la base del lavoro dei nuclei di valutazione.
L'attenzione alla qualità della ricerca, negli ultimi anni aveva
portato Amaducci ad una approfondita riflessione sui metodi per conciliarla
con un'attività assistenziale troppo spesso poco funzionale alla
ricerca stessa, anche se dovrebbe costituire la base dell'attività
dei docenti universitari appartenenti ai Dipartimenti clinici. L'inadeguatezza
del contesto normativo, delle strutture e delle infrastrutture assistenziali
dei grandi Ospedali Universitari italiani in generale, ma soprattutto di
quello fiorentino, lo avevano costretto da molti anni alla scelta di ridurre
progressivamente gli spazi e i tempi da dedicare all'assistenza della Clinica
da lui diretta, al fine di conservare spazi e tempi adeguati per la ricerca.
Tuttavia negli ultimi anni, da quando nel '93 è entrata in vigore
la Legge di riforma sanitaria che creò le Aziende Ospedaliere, Amaducci
si accorse che quella scelta non era più praticabile perché
l'Istituzione "Azienda Ospedaliera" rompendo l'unità per
noi inscindibile di ricerca didattica e assistenza, perseguiva primariamente
quest'ultima a scapito delle prime due. Inoltre, gli spazi assistenziali
lasciato liberi a Firenze negli anni passati dalla nostra disciplina per
perseguire adeguatamente una ricerca di qualità, erano stati progressivamente
occupati da Istituzioni come quelle ospedaliere con finalità diverse
dalla ricerca, cosa che ormai ci stava privando anche dell'accesso alla
casistica necessario a svolgere una didattica ed una ricerca di qualità,
quantomeno nelle patologie neurologiche che richiedono assistenza ospedaliera.
Per questo motivo, specialmente durante il suo ultimo anno prima di ammalarsi,
Amaducci aveva ripreso con vigore l'iniziativa per recuperare gli spazi
assistenziali necessari e soprattutto perché fosse recuperato, sia
a livello politico che di opinione pubblica il principio irrinunciabile
su cui deve fondarsi l'attività assistenziale degli Ospedali universitari:
secondo Amaducci questo tipo di ospedali dovevano essere principalmente
la sede del trasferimento in tempi brevi dell'innovazione all'attività
assistenziale. L'iniziativa da lui ripresa negli ultimi anni nel complesso
campo della politica della ricerca clinica, sboccò anche nell'attività
di consulenza al Ministro Berlinguer svolta nella Commissione Ministeriale
da quest'ultimo insediata proprio per l'approfondimento delle problematiche
delle Aziende Ospedaliere in cui insiste la Facoltà di Medicina.
In quella sede sostenne con passione la necessità di rafforzare
il ruolo di ricerca di tali Aziende. Questo obiettivo secondo lui era perseguibile
attraverso:
- l'istituzione di Aziende Speciali che rappresentassero una "società"
della Università con il SSN, finalizzate principalmente al supporto
dell'attività di ricerca e quindi non più commiste con U.O.
del SSN;
- l'identificazione per le discipline cliniche, dei Dipartimenti Universitari
con i Dipartimenti assistenziali;
- una ridefinizione del contributo dell'Università all'attività
assistenziale in termini di risorse sia umane che economiche.
L'EREDITA'
Nei mesi della sua malattia Amaducci sapeva
di non poter nutrire speranze, ma nonostante questo gli amici ed i familiari
lo hanno sentito rammaricarsi solo di una cosa: di non aver potuto completare
il suo Progetto. Questo progetto era fatto delle tante attività
che abbiamo ricordato, ma che in ultima analisi era quello di contribuire
a lasciare a Firenze una Università più forte e prestigiosa
ed una Neurologia di livello internazionale. Spero di essere riuscito a
ricordare efficacemente ad i suoi colleghi ed amici i metodi con cui voleva
perseguire il progetto che è stato così brutalmente interrotto.
A noi tutti il compito di far sopravvivere almeno le sue idee facendo seguire
fatti alle parole.