La costruzione di uno spazio
comune europeo della scienza e della tecnologia
Antonio Ruberti
1. Considero un privilegio poter aggiungere la mia testimonianza in
questo incontro dedicato al contributo scientifico e sociale, culturale
e politico di Luigi Amaducci. Ho avuto l'opportunità di poter contare
sul suo consiglio e sulla sua collaborazione durante l'esercizio dei miei
incarichi nel governo nazionale e nella Commissione europea, e di poter
apprezzare la sua passione scientifica, la sua sensibilità sociale,
le sue qualità intellettuali.
Siamo anche stati insieme nell'impegno culturale e politico per le riforme
del sistema della Ricerca e dell'Università, e ho potuto apprezzarne
la coerenza e la lealtà anche nei momenti difficili che i cambiamenti,
quando non sono solo di facciata, determinano. Il suo impegno non si è
mai affievolito di fronte alle resistenze che si opponevano alla istituzione
del Ministero dell'Università e della Ricerca ed al riconoscimento
dell'autonomia dell'Università e degli Enti di ricerca. Gli dobbiamo
profonda riconoscenza per ciò che ha fatto come studioso e come
intellettuale, e per come lo ha fatto, con la sua serena determinazione
e la sua paziente capacità di innovazione, con la sua lucida intelligenza
e la sua tranquilla passione.
Come Massaccesi ha ricordato, anche in questi ultimi anni tormentati e
difficili in cui si è inaridito il dibattito culturale e politico
sui temi della Ricerca e dell'Università e si è determinato
un clima di rassegnata separatezza, Luigi Amaducci ha mantenuto il suo
impegno. Illuminante la presa di posizione, chiara e lucida, sul conflitto
tra sistema sanitario e sistema universitario che si collega, a livello
più generale, al rischio della "dipartimentalizzazione"
del governo del sistema ricerca.
Il suo è dunque un esempio che ci richiama e ci sollecita alle responsabilità
di assumere posizioni chiare sul destino del settore in cui si opera. E'
in questo spirito che svolgerò qualche riflessione sull'attuale
fase di evoluzione del sistema della ricerca e della Università.
2. La prima riflessione riguarda l'assetto del governo del sistema, anche
se non si può non essere scoraggiati dal modo in cui esso è
stato affrontato in questa legislatura. Abbiamo visto nell'ordine: l'incarico
ad uno stesso Ministro del Ministero dell'Istruzione e di quello della
Università e della Ricerca, un processo strisciante verso la unificazione,
la sua brusca interruzione con il repentino ristabilimento della separazione
per ragioni di dosaggio tra i partiti nella formazione del governo. Come
non confrontare questo stato di cose con il dibattito, non limitato ai
soli addetti ai lavori, che preparò ed accompagnò la istituzione
del ministero dell'Università e della Ricerca e l'iter del disegno
di legge che richiese ben due anni? Come non essere colpiti dal "silenzio"
che ha accompagnato le scelte politiche degli ultimi anni? Come non notare
l'abbreviazione, in pressoché tutta la stampa, della denominazione
del Ministero dell'Università e della Ricerca in Ministero dell'Università,
con la emblematica sparizione del termine Ricerca?
Eppure il problema istituzionale è importante.
Mi sono fermato su di esso più volte e non vorrei qui ripetere le
ragioni per cui - nella situazione che ancora caratterizza l'assetto del
nostro sistema di istruzione e ricerca - la unificazione del governo dell'istruzione
universitaria (o più in generale terziaria) e della ricerca è
e rimane necessario.
La integrazione del governo di tutto il sistema dell'istruzione e della
ricerca sarebbe possibile se l'assetto centralistico dell'istruzione scolare
non costituisse un peso destinato a polarizzare su di essa l'azione governativa
con uno squilibrio negativo per l'Università e per la ricerca. Rimane
peraltro valida l'esigenza di recuperare all'Università il ruolo
essenziale che deve avere nella ricerca, dopo una fase che ha visto, con
l'espansione della dimensione della popolazione studentesca, uno squilibrio
crescente tra le due funzioni, d'insegnamento e di ricerca, la cui coesistenza
costituisce l'identità genetica delle Università. La istituzione
del Ministero dell'Università e della Ricerca volle essere un intervento
capace di arrestare quello strisciante processo di licealizzazione che
avrebbe distrutto la specificità dell'istituzione.
Dunque un provvedimento teso ad evitare sia la polarizzazione dell'impegno
di governo sulla sola scuola sia l'atrofizzazione del ruolo dell'Università
nella ricerca. Ma anche, in positivo, l'esigenza di avviare un processo
di governo unitario e complessivo dell'intero sistema ricerca, che comprende
università, enti pubblici di ricerca, laboratori e centri di ricerca
del sistema produttivo. E ciò per definire e attuare quegli interventi
che riguardano le responsabilità dei poteri pubblici rispetto a
questo settore strategico, che anche in una economia di mercato non può
essere affidato, e in nessuno stato viene affidato, a una gestione e ad
un finanziamento solo privato.
Se queste motivazioni sono valide, prima di procedere verso un'integrazione
più ampia nell'assetto del governo, occorre eliminare anzitutto
gli ostacoli (assetto centralistico del sistema scolare e squilibrio insegnamento
- ricerca nelle Università) e far maturare le condizioni per una
politica dell'alta formazione e della ricerca all'altezza dei bisogni del
paese e della sua collocazione nel quadro europeo e internazionale.
Non posso perciò che confermare le preoccupazioni sul modo in cui
si affrontano i problemi istituzionali di questo settore. Queste preoccupazioni
si aggravano di fronte al rischio strisciante di una "dipartimentalizzazione"
del governo della ricerca tra i vari Ministeri. E ciò in profondo
contrasto con l'indebolimento delle frontiere tra i diversi settori di
ricerca e con la esigenza di farli concorrere ai molteplici e diversi obiettivi
che alla scienza e alla tecnologia sono oggi proposti: crescita della conoscenza,
qualità della vita (salute, ambiente, infrastrutture), competitività
del sistema produttivo di beni e servizi.
Ciò che occorrerebbe perciò fare in questa fase è
procedere sulla strada aperta dall'istituzione del Ministero dell'Università
e della Ricerca, estendendone le responsabilità al di là
di quanto si riuscì concretamente a fare nella legge istitutiva.
In ogni caso occorrerebbe almeno riaprire il dibattito su questo problema
istituzionale, che è particolare e specifico ma non secondario;
esso infatti riguarda un settore strategico per l'avvenire del paese.
3. Una seconda riflessione riguarda due questioni che a me paiono importanti
per la definizione delle politiche di ricerca.
C'è oggi una asimmetria nell'attenzione alla formazione ed alla
ricerca, non solo in Italia e non solo da parte del governo. Le difficoltà
che oggettivamente nascono dal gravissimo fenomeno della disoccupazione
e l'esigenza di intervenire anche sul breve termine portano - e ciò
è giusto - ad affrontare l'adeguamento ed il potenziamento delle
politiche della formazione. E' anche giusto tener ben presente che istruzione
e formazione sono processi decisivi per far avanzare il diritto ad avere
pari opportunità. A ciò si aggiungono le oggettive difficoltà
di bilancio per la parte pubblica ed i costi della ristrutturazione dei
sistemi produttivi per la parte privata.
E tuttavia senza alimentare la produzione di nuove conoscenze, senza sviluppare
il sistema ricerca si procede inesorabilmente verso un impoverimento progressivo
del paese e delle stesse possibilità di occupazione.
Il capitale immateriale delle società moderne non è fatto
solo di competenze; esso è anche costituito dalle conoscenze che
si è capaci di produrre e accumulare.
Occorre recuperare la capacità di guardare oltre l'immediato presente,
il contingente, anche se questo deve naturalmente essere affrontato e gestito
con cura e attenzione.
Sono qui la difficoltà e la complessità della sfida alla
quale siamo di fronte: gestire il presente senza dimenticare di preparare
il futuro. E questo dipenderà da quanto e da come saremo capaci
di investire.
Gli investimenti devono garantire la continuità nel tempo della
capacità di produrre nuove conoscenze. La pressione per assicurare
redditività a breve termine nella crescita della competitività
e la correlata deriva utilitaristica nella scelta degli obiettivi che attualmente
condiziona le politiche della ricerca è destinata ad incidere negativamente
sulla continuità del processo di produzione delle conoscenze. E'
infatti lo stesso obiettivo della competitività collocato su un
orizzonte temporale medio - lungo che richiede un corretto equilibrio tra
ricerca di base e finalizzata. In effetti c'è anche un'esigenza
non mercantile, più alta, da tenere in conto ed è quella
di alimentare la ricerca tesa all'accrescimento disinteressato della conoscenza.
Nella definizione della politica della ricerca occorre dunque tener ben
presenti due rischi che si annidano nel quadro attuale, e che nascono,
come è giusto riconoscere, da difficoltà e pressioni oggettive.
I rischi sono: una polarizzazione, rispetto alla ricerca, sui soli problemi
dell'istruzione e della formazione e una deriva utilitaristica a breve
termine nella fissazione degli obiettivi.
4. La terza riflessione riguarda l'elaborazione di un progetto per il futuro.
Deve essere ricordato che gli interventi legislativi e organizzativi della
fine degli anni ottanta - il Ministero unico, l'autonomia delle Università
e degli Enti di ricerca, la riforma degli ordinamenti, il diritto allo
studio (dal tutorato al part time degli studenti) - avevano alla base uno
sforzo di elaborazione e di discussione maturato negli anni precedenti.
Ciò che manca oggi è un analogo sforzo per un progetto per
il futuro; è su questo che occorrerebbe impegnarsi. Ho cercato,
negli ultimi anni, qui e negli altri paesi dell'Unione Europea, di far
avanzare l'idea della costruzione di un vero e proprio spazio comune europeo
della scienza e della tecnologia (oltre che dell'istruzione).
Sono profondamente convinto infatti che ci sono spinte oggettive verso
un equilibrio nuovo tra programmi e strutture nazionali e programmi e strutture
comuni europee.
Delle resistenze che si oppongono alla crescita della cooperazione e del
coordinamento e sui modi per vincerle e procedere alla costruzione dello
spazio comune ho cercato di contribuire con riflessioni e proposte.
Qui vorrei solo fermarmi su quello che mi sembra possa costituire per la
politica della ricerca in sede nazionale l'asse centrale oggi: convergenza
quantitativa e qualitativa delle strutture di ricerca verso livelli confrontabili
con quelli dei paesi europei di dimensione e sviluppo confrontabili. Intorno
a questo asse si dovrebbero muovere l'adeguamento delle strutture di governo,
le politiche di bilancio, la riforma degli enti, l'evoluzione e la crescita
dell'impegno della ricerca nell'Università, lo stimolo e il sostegno
alla ricerca industriale. Non si tratta, e non si deve, innescare un processo
di clonazione, ma si deve impedire una evoluzione che mantenga o generi
diversità negative e sostenere invece l'evoluzione verso un sistema
con maggiore capacità di riconoscersi e cooperare con quelli dei
paesi migliori in questo settore.
Sul piano europeo occorrerebbe rimettere, a mio avviso, le mani sul modello
attuale - parte comunitaria (programma quadro) e parte intergovernativa
(CERN, EMBL, ESA, Eureka ecc.) - e passare ad un nuovo modello che utilizzi
la ricchezza dell'attuale assetto a geometria variabile, accresca l'azione
di coordinamento, riduca il centralismo burocratico. E ciò attraverso
il potenziamento di quel tessuto di collegamento, costituito da reti e
sottoreti per sviluppare programmi congiunti in uno spazio comune e poli
di concentrazione europea per i mega progetti o per le infrastrutture di
servizio.
In definitiva, a me pare che in una stagione in cui mercato, industria,
servizi e la politica stessa si ristrutturano a dimensione europea, la
sfida per la ricerca sia anch'essa a dimensione europea. E le parole d'ordine
naturali sono: convergenza dei sistemi paese e adeguamento istituzionale
delle politiche comuni.
Antonio Ruberti è Presidente Commissione Politiche dell'UE,
Camera dei Deputati.
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