Dino Vannucci
Un Italiano libero che non mollò

Dino Vannucci nacque a Vergato, in provincia di Bologna, il 25 agosto del 1895, primogenito di Ulderico e di Ida Lori, entrambi fiorentini. E di non essere nato a Firenze, a Dino, fiorentino di razza buona come lo definì Ernesto Rossi, dispiacque per tutta la vita.
Il fatto è che suo padre, ingegnere, insieme alla moglie in attesa del figlio, si era trasferito in Emilia, durante quel periodo, perché lavorava con la ditta del suocero Tito Lori, impresario edile, alla costruzione della ferrovia porrettana.
Ma gli anni dell'infanzia di Dino trascorsero a Firenze: nelle belle giornate di sole, al giardino dell'Orticultura; nelle estati, in campagna, nella villa del nonno materno a Pratolino.

Poi l'adolescenza, la giovinezza, gli studi liceali, la laurea in Medicina.

Racconta Ernesto Rossi: <<La prima riunione di Italia Libera fu tenuta nello studio dell'avv. Enrico Bocci, che doveva essere torturato e assassinato nel giugno 1944, quale capo della resistenza a Firenze. Oltre ai quattro promotori, Raffaele Cristofani, Achille De Liguori, Luigi Piani, Nello Traquandi, ci trovammo in una dozzina di persone fra le quali Enrico Bocci, Carlo Rosselli, il dr. Luigi Rochat, Ernesto Menichetti, Dino Vannucci. Ci mettemmo d'accordo sul fine che volevamo dare all'Italia libera fiorentina: condurre una metodica propaganda contro le leggi vigenti e quelle che prevedevamo sarebbero state presto emanate in difesa del regime ... le nostre riunioni notturne si tenevano a casa Vannucci (di giorno eravamo tutti troppo occupati) ...
Dopo un paio di mesi di lavoro, collaudammo la segretezza dell'organizzazione, convocando l'assemblea di tutti gli iscritti per eleggere un direttivo regolare. Soltanto all'ultimo momento gli iscritti conobbero il luogo in cui si sarebbe tenuta la riunione: avevano avuto un appuntamento in luoghi diversi, dove ognuno trovò, a istradarlo, un compagno, il quale si faceva riconoscere mostrando la Gazzetta dello Sport e dicendo una parola d'ordine.
L'assemblea risultò più numerosa di quello che speravamo: un centinaio di persone. Fissammo i lavori per i prossimi mesi, in previsione di non poter più convocare l'assemblea finché fosse durato il regime. Nel direttivo furono elette le persone che fin'allora avevano svolto una più intensa attività: Enrico Bocci, avvocato; Raffaele Cristofani, ferroviere; Ernesto Rossi, insegnante; Nello Traquandi, ferroviere; Dino Vannucci, medico ...

Il vero capo dell'Italia Libera fu, a Firenze, Dino Vannucci. Nato nel 1895, lo conobbi all'Associazione mutilati, trovandomi concorde con lui per impedire la speculazione che il presidente dell'associazione, Carlo Delcroix, faceva sui valori ideali della nostra guerra. Scanzonato come lo sanno essere soltanto i fiorentini, quando sono di razza buona, Dino era del tutto insensibile alle macabre messe in scena ed alla retorica dannunziana del cieco veggente. Mi riuscì, per questo, simpatico fin dal primo momento. Alto, dinoccolato, claudicante, Dino aveva un lungo viso da cavallo, che si illuminava tutto nel sorriso. Pronto allo scherzo ed alla barzelletta, sembrava non prendesse niente sul serio. Ma era il primo a gettarsi allo sbaraglio, quando c'era da pagar di persona, per qualcosa che ne valesse la pena. E le cose importanti per lui erano le cose che gli uomini che "san vivere", in generale, considerano sciocchezze: la verità, la libertà, la giustizia. Interventista contro il militarismo tedesco, non aveva voluto imboscarsi in sanità. Era andato al fronte come soldato semplice, negli alpini, e ne era tornato zoppo per tutta la vita, per una ferita al ginocchio, e senza un dito della mano destra. Libero docente in anatomia e istologia patologica, gettava buona parte della ingente fortuna, ereditata dal padre, nelle ricerche scientifiche, e la giornata gli sembrava sempre troppo corta in sala anatomica o davanti al microscopio. Ben poco tempo gli restava per la moglie e le due bambine, che pure amava teneramente. La notte, quando discutevamo nel direttivo dell'Italia Libera, mai guardava l'orologio. Ci accomiatavamo alle due o alle tre del mattino, dopo esserci accordati sui più minuti particolari delle iniziative che prendevamo. Dino voleva essere presente in tutte le nostre manifestazioni, perché pensava di non avere il diritto di chiedere agli altri di correre rischi, se non rischiava lui stesso. E mai pensava che un compito fosse inferiore alla sua cultura ed alla sua posizione sociale, se lo riteneva utile alla buona causa. Quando c'era da fare una scritta sui muri, o da affiggere un manifesto, anche lui usciva, la notte, col suo bravo pentolino. Fu costretto dopo i fatti del 1925 a rifugiarsi a Padova. Minacciato nella vita anche a Padova, emigrò nel Brasile, dove morì nel 1937 per setticemia, contratta in una operazione nell'ospedale italiano di San Paolo, di cui era diventato direttore.>>

In "Una storia italiana - Vita di Ernesto Rossi", Giuseppe Fiori scrive: <<Primo mattino del 2 novembre 1924, giorno dei morti. Ernesto, insegnante dell'Istituto tecnico, e la fidanzata di Carlo Rosselli, Marion Cave, insegnante al British Institute di Firenze, sostano davanti al cimitero delle Porte Sante in attesa dell'apertura. Entrano per primi, al momento sono soli, la nuvolaglia bassa fa buio il giorno, salgono alla cappella gentilizia dei Vannucci. La sera prima vi hanno nascosto un grande ritratto di Matteotti e ceri e fiori. Espongono Matteotti al centro dell'altare, rinfrescano i fiori, accendono i ceri, lasciano socchiusi i battenti del cancello per non togliere visibilità al quadro, una catena di ferro impedisce l'apertura completa e l'entrata dei fascisti, lo sfregio. In poche ore, davanti alla Cappella Vannucci, fiori e corone fanno mucchio. Il passaparola di Italia Libera ha funzionato, è un pellegrinaggio ininterrotto. Ma dopo che la madre d'uno squadrista, nota tenutaria d'un casino, ha letto le scritte sulle corone e s'è messa a inveire, la risposta degli uomini di Tamburini non tarda. Arrivano armati, si lanciano in un pestaggio brutale, carabinieri e poliziotti fermano i pestati. Anche Salvemini e Jahier hanno guai. I sei della guardia d'onore alla cappella Vannucci finiscono in questura. Sono il laureando in scienze sociali Paolino Rossi, ventitré anni, lo studente Tommaso Ramorino, ventisei anni, il ragioniere Mario Sanità, venticinque anni, l'avvocato Piero Burresi, trentadue anni, il commerciante Mario Campolmi, ventisette anni, l'ex capitano Umberto Calosci, trentacinque anni. Il delitto? Violazione di domicilio. Come glielo raccontano, il capo di Italia Libera Dino Vannucci piomba in questura urlando: "La cappella è mia, la chiave gliel'ho data io. Semmai, colpevoli di violazione sono i vostri agenti entrati in cappella senza il mio permesso! Incerto sugli sviluppi della situazione politica nazionale, il questore rilascia gli arrestati.>>

Scrive ancora Giuseppe Fiori: <<Salvemini era quello che prevalentemente scriveva il Non mollare, gli altri erano tutti collaboratori per i pezzettini. Solitamente provvedevano ai pezzettini Jahier, Calamandrei, i Rosselli, Ernesto, gli avvocati Enrico Bocci e Carlo Celasco, Dino Vannucci, Alfredo e Nello Niccoli. Nulla è lasciato al caso nell'organizzazione. Nello Traquandi ed Ernesto hanno il delicato incarico di raccogliere notizie riservate sulle tipografie con numero minimo di addetti, individuano quelle affidabili, contrattano, nessuno all'infuori di loro porta i materiali, insieme ad altri di Italia Libera fanno vigilanza esterna durante la composizione a mano e la stampa. Le regole della clandestinità sono rigide, e le osservano. Un accorgimento è cambiare tipografia continuamente. Stampano qualche numero fuori Firenze: a Padova, Treviso, Milano. Ai contrattempi fanno fronte ingegnosamente. Merita citazione il fantasioso espediente che li salva quando la soffiata di amici su una perquisizione della polizia in arrivo gli permette di intervenire in anticipo per trafugare e nascondere il numero affidato ai fratelli Nannelli, tipografi in via Santa Elisabetta, tra piazza della Signoria e il Duomo. L'antefatto. Ernesto è andato a trovare Dino Vannucci dove lavora, all'ospedale di Santa Maria Nuova, reparto di anatomia patologica, e d'un tratto, come lo scoprisse al momento, lascia cadere: Per la stampa clandestina il frigorifero in cui tieni al freddo i tuoi cadaveri è il miglior nascondiglio che si potrebbe trovare. Vannucci consente ridendo. Passano pochi giorni, Traquandi sa casualmente della perquisizione disposta, si precipita in via Santa Elisabetta con una valigia, ci butta alla rinfusa le pagine composte e le poche copie stampate, vola al reparto di anatomia patologica, stavolta il Non mollare giace defunto tra i defunti.>>

In una lettera a me indirizzata da Okinawa (Giappone) il 5 Novembre del 1997, la figlia di Dino Vannucci, Marta, con la quale ero riuscita a entrare in contatto, mi scrive:

<<Carissima Giovanna, che bella sorpresa e che gran piacere conoscerti, sebbene per ora appena per lettera. Una cugina di Papà mio è anche cugina mia! Sapessi quante volte ho pensato ai miei parenti per parte di nonna Ida. Mi ricordo bene anche di tuo babbo Piero Lori; lo chiamavano "Pierino", quando ero bambina io. Avevo otto anni e mezzo quando, nel febbraio del '30 partimmo, mamma, sorella ed io, per raggiungere mio padre, Dino Vannucci, a S. Paulo del Brasile. Morì a S. Paulo del Brasile a 42 anni, io ne avevo 16.
Sono commossa e riconoscente dell'interesse di Pratesi, presidente del Circolo Fratelli Rosselli, i quali, d'altra parte ricordo bene come pure la moglie Marion (se non sbaglio), di uno di loro. Io sarò a Firenze dal 7 al 15 aprile del' 98, se Dio vuole; sarò felicissima di conoscere tuo marito e le tue figliuole. Sarà bellissimo anche far la conoscenza del prof. Pratesi e di quelli del Circolo Fratelli Rosselli. Sarò contentissima di parlare e ricordare la figura indimenticabile del mio babbo. Però non potrò certo andare a Firenze prima di Natale, o prima del mese di aprile dell'anno venturo. Ho tutti i giorni impegnati fino al 17 aprile. Non posso quindi promettere di scrivere niente prima di allora, malgrado il mio interesse sia grande e il mio piacere ancora di più. Figurati che sarò in viaggio, tra un posto e un altro, anche il giorno di Natale.
Quanto a mia sorella Mirella, lei sta a S. Salvador, Stato di Bahia in Brasile, molto lontano da S. Paulo e non so se sarebbe in grado di aiutare, poiché ha più di ottant'anni. Io ne ho già 76 e mezzo.
A presto conoscerci di persona, tua
Marta>>

Nell'incontro che seguì a questa lettera, il lunedì di Pasqua, 13 aprile 1998, nella mia casa di Firenze, Marta mi ha raccontato alcuni episodi della vita di suo padre e della sua vita con suo padre.

All'epoca, il mondo degli adulti e quello dell'infanzia erano più rigidamente separati rispetto ad oggi ed in più, per motivi di sicurezza, gli antifascisti cercavano di non parlare in presenza di figli piccoli che avrebbero potuto riportare fuori casa, inavvertitamente, situazioni e discorsi pericolosi. Ma Marta sostiene che, come tutti i bambini, lei aveva un sesto senso, capiva o perlomeno intuiva tutto. Ricorda sempre quello che le successe, quando frequentava le Scuole Elementari dell'allora Viale Regina Margherita. Bravissima a scuola, (diventerà una brillante scienziata, esperta di genetica vegetale, nonostante la difficoltà di dover contemporaneamente lavorare e studiare, dopo la precoce morte del padre) aveva vinto il primo premio messo in palio quell'anno a favore di chi si fosse distinto per il miglior profitto. Ma al momento della consegna del riconoscimento, la maestra, alla quale toccava il compito di proclamare i vincitori, disse: <<Il primo premio è stato vinto da Marta Vannucci. Però non glielo possiamo consegnare perché è figlia di uno sporco antifascista.>> Marta tornò a casa in lacrime e la sua mamma, quando seppe l'accaduto, la consolò dicendole: <<Non te la prendere troppo, perché verrà un giorno in cui sarai orgogliosa di non aver ricevuto quel premio.>>

Ma i guai non ebbero completamente fine neppure con il trasferimento in Brasile. Dino Vannucci, stimatissimo nella comunità italiana di S. Paulo, medico e chirurgo prestigioso ed apprezzatissimo nel locale Ospedale fondato dall'italiano Francesco Matarazzo, continuò a doversi scontrare con la burocrazia e con l'organizzazione scolastica fascista della scuola locale frequentata dalle figlie.

Marta, che frequentava il Liceo, non faceva il saluto romano obbligatorio quando, con i suoi compagni di classe, sfilava nel cortile di fronte al tricolore. Richiamata dal Preside, ne parlò con il padre che le disse: <<Tu agisci secondo coscienza, senza tener conto delle mie personali convinzioni. Io non voglio che le mie idee condizionino la tua vita.>> Marta continuò a non fare il saluto romano. Il preside allora convocò Dino che ribadì la propria posizione: sua figlia era libera di scegliere, non era certo lui ad imporle un certo comportamento. Durante tutto il colloquio, Dino Vannucci fu cortese ma deciso e, con un gesto più eloquente di tante parole, non si tolse mai il cappello.

La morte, purtroppo, colse Dino Vannucci quando era ancora giovane, nel pieno delle sue forze e della sua attività; era stata ricoverata una donna, in gravissime condizioni, nel reparto dei non paganti, dove venivano assistiti i più umili strati della popolazione e dove Dino più volentieri prestava la sua opera. Nessuno se la sentiva di operarla, ma i parenti di lei insistettero molto, aggrappandosi all'ultima speranza di un intervento. Dino tentò ma durante l'operazione il bisturi gli sfuggì di mano, ferendolo. Pochi giorni più tardi morì di setticemia chirurgica. Era il 31 agosto del 1937.

Nell'ospedale di S. Paulo è stato collocato un busto scolpito di Dino Vannucci, per onorarne la memoria; la stampa, anche ufficiale, lo ricordò in termini elogiativi, nel tentativo che spesso si verifica da parte dei conformisti, dei benpensanti, di quelli cioè che, con arguzia tutta fiorentina, Dino chiamava i pecoroni, di riappropriarsi, dopo la morte, dei personaggi illustri e prestigiosi, ma che in vita erano stati scomodi.

Marta Vannucci mi ha riferito che, alla morte della sua nonna paterna, l'amatissima madre di Dino, tentò di recuperare le lettere che suo padre le inviava a Firenze, ogni sabato, dal lontano Brasile. Da quelle, forse, si sarebbero potuti conoscere pensieri, opinioni, giudizi interessanti. Ma la vecchia governante di famiglia le disse che la signora Ida aveva gelosamente conservato per tanti anni quei fogli in una cassapanca ma che, negli ultimi tempi, forse sentendosi avvicinare la morte, aveva bruciato molte carte.

Scrive Ernesto Rossi, e le sue parole mi sembrano le più adatte per concludere questo ricordo di Dino Vannucci: <<In verità, quel che più importa, a questo mondo, ci viene come sovrappiù, come compenso inatteso. Prima la partecipazione come volontario alla guerra contro il militarismo tedesco e poi la lotta antifascista mi hanno consentito di diventare amico di quella ventina di persone che metteva il conto di conoscere, durante la mia generazione, nel nostro paese (Salvemini, i Rosselli, Gobetti, Giovanni Amendola, Parri, Bauer, Tarchiani, De Viti, De Marco, Luzzatto, Einaudi, Monti, Gaetano Pilati, Berneri, Egidio Meneghetti, Spinelli, Enrico Bocci, Gigino Battisti, Giannantonio Manci, Calace, Enrico Rocca, Morra, Colorni, Calamandrei, Enriques Agnoletti, Traquandi, Dino Vannucci, Agosti, Sandro Galante Garrone, Garosci, Max Salvadori, Venturi, Foa, Cavallera, ecc.): il sale della terra. Che cosa sarebbe stata la vita se non li avessi incontrati sulla mia strada? E certamente non li avrei incontrati se non avessi percorso quella strada...>>

Giovanna Lori



                       

I fratelli Vannucci: Dino, il più piccolo, porta ancora al braccio il lutto del padre, morto poco tempo prima.
(foto: cortesia di Maria Carmela Lori)


Edited by Riccardo Pratesi - Copyright © 1997 by [Circolo Fratelli Rosselli].
Created: 12/11/1998 - Last Update 21/04/1999